A Roma è sempre esistita un’arte medica. Tuttavia, è necessario aspettare il III sec. d.C. per arrivare a una vera e propria medicina professionale. Come si curavano dunque i romani e da chi hanno imparato?
Inizialmente, i Romani praticavano una medicina empirica. Per curare i malati o i feriti si usavano principalmente delle erbe, preparate in casa, secondo rimedi tramandati di padre in figlio. Non poteva inoltre mancare un tocco di superstizione e stregoneria, che, unito alle scarsa conoscenza anatomica, sfociava nella diffusione di infondate credenze. Si riteneva, per esempio, che la milza fosse la sede del riso, il fegato dell’amore, il cuore dell’intelligenza.
Di farmacie come le intendiamo oggi, non c’era nemmeno l’ombra. Esistevano, però, delle botteghe in cui si vendevano unguenti medicati, radici, erbe, aromi. Il venditore di farmaci non era un professionista, ma un ciarlatano, che vendeva i suoi prodotti vantandone gli effetti strabilianti. Preparava i rimedi a semplice richiesta del cliente, senza il bisogno di una ricetta e senza il controllo di pubblici poteri.
Solamente alla fine del III secolo d.C. la medicina scientifica fece il suo ingresso a Roma, con l’arrivo di medici dal mondo greco-orientale, e l’impero si curò di provvedere un’assistenza medica da parte di uomini esperti e seri nell’interesse della popolazione.
La medicina romana aveva tutte le caratteristiche principali della medicina greca. Tra queste, la libertà tecnica del medico, che noi oggi diamo per scontata. In realtà, l’idea che la medicina non consista in una rigida e meccanica applicazione di norme, ma si basi sull’intelligente e coscienzioso criterio di un uomo è una conquista tarda. Per esempio, nell’antico Egitto, il medico non era libero di scegliere la cura, ma doveva seguire la prassi tradizionale obbligatoria.