L’irriducibilità dell’esperienza reale. Primo inquadramento della figura dell’insegnante specializzato

Quando pensiamo alla figura dell’insegnante di sostegno la nostra mente, inevitabilmente e quasi automaticamente, corre purtroppo a degli archetipi generali, superati, riduttivi e assai spesso fantasiosi. Immaginiamo la maestra che tiene per mano l’alunno e lo accudisce come una mamma farebbe col figlio: ogni carezza, in fondo, è pur sempre un balsamo per l’animo inquieto.

A volte, illusi dalle scene sovente raffigurate sulle copertine dei libri di didattica speciale e inclusiva immaginiamo il docente sorridente accanto al “suo” studente altrettanto felice di lavorare serenamente. L’ambiente sullo sfondo è ordinato e accogliente, lo studente ben curato e visibilmente disposto all’ascolto e il docente appare sempre abbastanza gratificato. Di queste foto paradigmatiche che danno forma alle copertine di tanti testi di didattica speciale i reparti dedicati di tante librerie sono pieni (la prima immagine che ho selezionato per questo articolo è alquanto simbolica).

Vecchi retaggi di una didattica – grazie a Dio – ormai superata ci fanno invece pensare all’isolamento di tanti studenti, quelli che oggi definiamo BES, nei corridoi e nelle aule vuote disponibili dove lavorano in modo solitario su schede prestampate o su grandi cartelloni bianchi.

Infine una certa manualistica prodotta da illustri luminari che sul campo, in effetti, non sono mai stati (hanno però lavorato sui dati e sui grandi numeri, questo si) ci restituisce un concetto, anzi il concetto cardine del vasto universo del sostegno didattico, che è quello di inclusione, oggi tanto utilizzato, e, direi, anche fin troppo abusato. Frequentemente si parla di inclusione in modo assai astratto e decontestualizzato e così facendo si rischia di mettere il carro davanti ai buoi: l’inclusione diventa in ogni caso un dovere e ciò si costituisce frettolosamente come una verità imprescindibile prima ancora di aver riflettuto a fondo sulle condizioni di possibilità di un’effettiva inclusività nei vari casi specifici.

Tutto ciò non ha nulla a che vedere col lavoro reale dell’insegnante di sostegno. Eccetto alcuni casi, peraltro molto rari, è difficile vedere un’insegnante di sostegno sorridente che, in giacca e camicia,

lavora serenamente accanto al suo studente. È invece più facile, soprattutto in contesti particolarmente difficili, vedere l’insegnante di sostegno riporre in Segreteria la sua borsa e la sua giacca (per questioni di sicurezza) dimenticare le sue centinaia ore di corso di specializzazione e di tirocinio insieme a tutta la gran mole di testi, saggi e articoli divorati, per correre dietro il “suo” studente che, non avendo assunto la sua terapia psicofarmacologica quotidiana, aggredisce tutti coloro che si trovano sul cammino. È molto più facile osservare un docente di sostegno gioire perché il “suo” studente ha detto «grazie» dopo aver ricevuto una penna per scrivere che vederlo invece gioire per aver raggiunto i cosiddetti «obiettivi minimi». Nella realtà dei fatti, che è ben distante dalla gioiosa realtà descritta dalla manualistica astratta, gli obiettivi minimi spesso non hanno nulla di didatticamente rilevante, ma sono soltanto traguardi – questo si – che possono ritenersi raggiunti quando lo studente acquisisce competenze umane per una civile convivenza nell’ambiente sociale della scuola.

Ponendosi al di fuori del sistema scolastico questo può sembrare estremamente riduttivo e degradante, me ne rendo perfettamente conto, eppure quando ci si pone all’interno delle logiche scolastiche e inclusive (quelle veramente inclusive) si comprende davvero, finalmente, che per molti soggetti con bisogni educativi speciali gli obiettivi minimi si attestano e non possono che attestarsi sul livello umano-relazionale anziché didattico-apprenditivo, e questo non è poco.

Bisogna considerare che la scuola è solo una fra le tante dimensioni dell’essere umano in età evolutiva. Troppo spesso dimentichiamo che taluni studenti vivono le ore extrascolastiche (che a ben vedere sono la maggior parte) in contesti familiari e sociali particolarmente difficili e che probabilmente il docente, proprio in quanto docente, non riesce ad immaginare nemmeno con un immenso sforzo della fantasia. Come docenti spesso non consideriamo un fatto che invece meriterebbe molta più attenzione antropologica e filosofica. Quando questi studenti entrano nel contesto scolastico quello che fanno è in realtà un passaggio simbolico, quasi un rito di passaggio, per affrontare il quale spesso non sono certamente pronti. Il transito dall’universo sociale e familiare, spesso privo di regole e di valori culturali e umani significativi, all’universo scolastico che, in quanto sistema istituzionale si regge di una serie di regole e valori ben chiari e definiti, produce in certi studenti un disorientamento profondo che il docente, invece, fortunatamente non conosce. Il docente, infatti, vive spesso una situazione familiare serena in una casa confortevole e ben arredata, fidando su una dignitosa retribuzione mensile. Accedendo a scuola il docente non compie un rito di passaggio, proprio perché il sistema familiare da cui proviene si regge su di una serie di regole e di valori che si possono ricondurre sinteticamente a quelle che sono le norme del buon vivere civile, che in fondo ritrova, con una diversa formulazione, anche nell’istituzione scolastica. Il passaggio tra le due istituzioni non è traumatico, non richiede sforzi e certamente non causa disorientamenti profondi.

Cosa accade, invece, nella mente di uno studente che è stato invitato a venire a scuola dal padre a suon di schiaffi? (Questo è ciò che la scorsa settimana uno studente mi ha raccontato). Sicuramente uno studente simile vivrà una tensione psicologica interna lacerante: da un lato sentirà la rabbia per le percosse ricevute consolidando la concezione distorta secondo cui la violenza è in fondo l’unico linguaggio sociale efficace. Dall’altro lato si troverà di fronte docenti che gli propongono sistemi di valori a lui completamente estranei basati sulle norme del buon vivere civile che in effetti potrebbe non aver mai conosciuto e messo in atto. L’incontro/scontro tra queste due consapevolezze è la sorgente prima dei comportamenti-problema che frequentemente vediamo emergere veementemente nelle classi. In esse, molto spesso non troviamo studenti sereni e ben predisposti allo studio matto e disperato dei pur nobilissimi programmi ministeriali, ma ritroviamo scenari paradigmaticamente rappresentati da questa foto (anch’essa volutamente simbolica).

Casistiche simili si pongono per l’insegnante specializzato come vere e proprie sfide educative, umane e relazionali di portata non indifferente. Molto spesso, però, nei docenti più sensibili emerge presto la chiara consapevolezza (che spesso assume le forme del più arrendevole disfattismo) circa l’impossibilità reale, purtroppo, di poter esercitare una vera ed efficace azione pedagogica su soggetti così profondamente turbati. L’azione del docente diventa infatti efficace e significativa soltanto nella misura in cui i soggetti di cui pedagogicamente e didatticamente si occupa sono supportati da una rete extrascolastica forte e presente che necessariamente deve trascendere la ben limitata dimensione scolastica. È impensabile, infatti, che un’azione pedagogico-didattica risulti davvero efficace senza un supporto psicoterapeutico o, in caso di necessità, psichiatrico. Ancora: è improbabile che l’intervento dell’insegnante specializzato centri l’obiettivo quando il riferimento della famiglia, troppo spesso intesa come destinataria di passive comunicazioni (in realtà dovrebbe essere partner attivo e consapevole del percorso evolutivo ed educativo dello studente) manca o risulta inaffidabile. È infatti la famiglia il primo riferimento della scuola per la costruzione di una dimensione unitaria, basata su di una comune piattaforma di valori e virtù. Una condivisa dimensione valoriale e culturale, infatti, darebbe modo a questo genere di studenti particolarmente complessi di non avvertire il peso del passaggio tra universi istituzionali radicalmente antitetici.

Il modello bio-psico-sociale che noi insegnanti specializzati studiamo e utilizziamo per i nostri documenti costituisce sicuramente, almeno sotto il profilo teorico, un sistema filosofico-antropologico di tutto rispetto per quanto concerne aspetti epistemologici, euristici e conoscitivi del nostro complicato mestiere. L’azione reale, però, quella cioè che svolgiamo nelle aule dalle otto del mattino fino all’ora di pranzo (non mi riferisco quindi ai grandi studi teorici e astratti) pur partendo da quella logica della complessità che il modello bio-psico-sociale egregiamente rappresenta, deve sforzarsi di calarsi ancor di più nell’irriducibile concretezza del singolo caso evitando di considerarlo come un momento puntiforme di una più generale e astratta teoria, ma come il risultato finale e dinamico di un’intersecazione di linee di forza non sempre comprensibili e governabili con i protocolli messi a disposizione dalla comunità scientifica. Affinché dunque il lavoro dell’insegnante specializzato non diventi un mero formalismo burocratico o un vacuo tentativo destinato – consapevolmente – al fallimento educativo è necessario indirizzare linee sinergiche d’interventi scolastici ed extrascolastici verso i soggetti con bisogni educativi speciali, nella piena consapevolezza che alla complessità dei modelli teorici debba corrispondere anche la complessità degli interventi reali, nel pieno rispetto della multiformità, imprevedibilità ed eterogeneità della natura umana e delle variabili in gioco

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