Differente normalità: sull’autismo e la sindrome di Down

Le giornate che ricordano la sindrome di Down (21 marzo) e l’autismo (2 aprile) ricorrono a poco meno di due settimane l’una dall’altra. Una strana similitudine con quanto accade anche nella realtà dei fatti. Sebbene si tratti di due condizioni radicalmente diverse sotto il profilo eziopatogenetico, sindromico e funzionale la trisomia 21 e i disturbi dello spettro dell’autismo mettono di fronte ai clinici, agli insegnanti specializzati in attività di sostegno e agli operatori universi mentali e modalità di funzionamento cognitivo e comportamente sicuramente diverse rispetto a quelle con cui comunemente si ci interfaccia. Relativamente al mio punto di vista, che è quello dell’insegnante specializzato in attività di didattica e pedagogia speciale, la trisomia 21 è solitamente ricompresa all’interno del più ampio insieme delle cosiddette disabilità intellettive insieme alla sindrome dell’X fragile, alla sindrome di Williams e alla sindrome di Rett. È stato definito come «un falso mito» quello della generale bontà, dell’affabilità e socievolezza delle persone con sindrome di Down. Tali caratteristiche «non sono riconducibili alla sindrome e non sono peculiarità tipiche del carattere delle persone con sindrome di Down». Sovente, infatti, gli operatori che si prendono cura di queste persone affrontano difficoltà comportamentali di una certa portata, trovandosi di fronte – non di rado – atteggiamenti finanche oppositivi provocatori. Non è difficile nemmeno imbattersi in difficoltà attentive (25%) e problematiche relazionali più generali. Dal punto di vista intellettivo, invece, le difficoltà certamente aumentano, essendo la sindrome di Down una particolare declinazione della disabilità intellettiva. Sotto questo profilo non è difficile imbattersi in notevolissime difficoltà dei processi cognitivi, che si manifestano peculiarmente in difficoltà di astrazione (pensiero concreto) e incapacità di padroneggiare i processi ipotetico-deduttivi. A ciò vanno aggiunti deficit soprattutto nella memoria a breve termine verbale e nella memoria di lavoro e, sovente, anche ritardi motori (dovuti, in taluni casi, all’ipotonia generale) e difficoltà prassiche (parziale o mancata interiorizzazione di schemi motori, problematiche di coordinazione). Notevoli difficoltà s’incontrano anche sotto il profilo linguistico (compromissione degli aspetti fonologici e della produzione morfosintattica). Non è mia intenzione entrare nei dettagli medici assai complessi e della disabilità intellettiva e dell’autismo (al quale ho dedicato diversi contributi per questa rivista). Il mio desiderio, invece, è soltanto quello di sensibilizzare il lettore su di un aspetto sul quale, ritengo, non s’insisterà mai abbastanza. Mi riferisco alla necessità di utilizzare forme di assoluta flessibilità didattico-pedagogica cercando di comprendere queste particolari modalità di esistenza abbandonano momentaneamente le categorie concettuali che solitamente si usano con le persone con funzionamento normotipico. Il vasto numero dei protocolli messi appunto – e continuamente aggiornati – dalla ricerca scientifica sarebbe impossibile da sintetizzare in questa sede. Perciò vorrei soltanto ricordare quanto un collega, alla fine dello scorso anno scolastico, mi disse in risposta alla mia valutazione finale sulle strategie didattiche impiegate per un complesso caso di autismo gestito nei mesi precedenti. Le sue parole furono: «il protocollo siamo noi». Questo appunto sintetizza in modo perfetto quello che sostanzialmente è il senso di ogni relazione d’aiuto, vale a dire non restare schiacciati da considerazioni scientifiche generali e astratte ma cucire l’intervento sulle caratteristiche irripetibili e uniche della persona. Questa osservazione, sia chiaro, non va intesa come un rifiuto della ricerca scientifica – che necessariamente è astratta e generale – o come un suo declassamento rispetto alla ‘pratica’ effettiva. Non si dimentichi che, per parafrasare un tale di Königsberg, l’esperienza senza l’intelletto sarebbe cieca, mentre l’intelletto senza l’esperienza sarebbe vuoto. Lasciano il tempo che trovano tutte quelle tesi stravaganti esemplificate dal noto detto secondo cui ‘la pratica è più forte della grammatica’. Senza un’adeguata conoscenza scientifica dell’autismo, delle sue caratteristiche e delle sue modalità di funzionamento, ogni intervento risulterebbe improvvisato, sprovvisto di lungimiranza e fondamento, e i benefici che potrebbe raggiungere sarebbero forse più attribuibili alla casualità e non alla reale efficacia delle strategie messe in atto (e lo stesso discorso vale per tutte quelle condizioni, compresa la sindrome di Down, che rientrano nel vasto insieme delle disabilità intellettive). L’invito, allora, non è quello di mettere da parte la conoscenza scientifica generale e astratta, che anzi va quotidianamente perseguita studiando con disciplina, regolarità e interesse (secondo la prospettiva del Lifelong learning) ma l’adattamento alle specificità della persona che ci sta di fronte secondo un passaggio che dall’astratto della teoria muove verso la concretezza del soggetto. Si tratta, dunque, di costruire una solida competenza scientifica facendo però attenzione a mantenere una strutturazione della conoscenza ‘a maglie larghe’, coltivando una flessibilità ampia e un’adattabilità al caso specifico elevata. È proprio tale adattabilità che sovente permette, laddove ciò si renda possibile e opportuno oltre che necessario, uno stravolgimento strategico delle misure e degli interventi in base alle circostanze e alle esigenze specifiche che ogni caso, nella sua irripetibilità, ci mette di fronte. È questa, alla fin fine, la grande sfida dell’autismo, della disabilità intellettiva e, in generale, di tutte le modalità di funzionamento ‘altre’ rispetto a quelle normotipiche alle quali la nostra società oralistica e verbosa ci ha abituati.

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