Andrea Mantegna è senza dubbio una delle personalità artistiche più riconoscibili del Quattrocento. Incarna infatti alla perfezione uno degli aspetti cardine del Rinascimento: l’amore per la filologia, lo studio accurato – ed accorato – delle cose antiche, il piacere estremo della riproduzione delle rovine, la copia delle pose e movenze delle statue e delle figure che popolavano i bassorilievi romani.
Dall’arte antica Mantegna ha tratto ispirazione per le sue figure posate e naturali, dotate di una plasticità piacevole alla vista; figure, però, che vivono e respirano in un’atmosfera soleggiata e cristallina e in uno spazio “certo e misurabile”, preciso, che trova in Giotto il suo pioniere tradizionale e nel primo Rinascimento la sua più entusiastica espressione.
Nella basilica di San Zeno a Verona è custodita, ancora nella sua collocazione originaria (condizione non usuale per questo genere di opere), una pala d’altare di straordinario valore per la storia dello sviluppo del Rinascimento nell’Italia settentrionale. La pala fece il suo ingresso nella basilica nel 1459 e portò il nuovo linguaggio rinascimentale, già padroneggiato dal classicheggiante Mantegna, a Verona e di conseguenza nel nord della nostra penisola, area che, anche per la maggiore vicinanza geografica ai suoi centri propulsori, era ancora fortemente legata al linguaggio artistico che aveva dominato il secolo precedente, il gotico nella sua forma internazionale, che riprendeva e celebrava, in uno scintillio di oro punzonato, vesti damascate, dettagli fiabeschi e atmosfere cortesi, gli ideali della classe aristocratica, una classe che assieme allo stile artistico che l’aveva contraddistinta e che era diventato sinonimo della sua antichità e del suo gusto (tanto da venire adottato da chiunque avesse ambizioni politiche), assisteva ormai al tramonto della propria fortuna, sostituita dalla dinamica e sempre più ricca e culturalmente indipendente classe mercantile.
Le pale d’altare del gusto gotico ancora dominante a Verona nel momento in cui Gregorio Correr, abate di San Zeno – e umanista che apprezzava le qualità filologiche della pittura di Mantegna e che forse voleva portare un campione di quella rivoluzione anche nella sua regione – gli commissiona quella per l’altare di San Zeno, erano i polittici, Sacre conversazioni nelle quali i partecipanti – la Madonna, il Bambino e i Santi di volta in volta pertinenti al luogo e spesso alla committenza – erano raffigurati ciascuno per conto proprio, in una tavola giustapposta alle altre, sì, ma in spazi chiusi non comunicanti tra loro. Il senso era chiaro: i personaggi più sacri (la Vergine in trono e il Bambino) al centro e i Santi ai lati ad intercedere presso di loro per conto dei fedeli; nella predella – la serie di tavole orizzontali posta alla base del polittico e contenente generalmente episodi della vita della Madonna, di Gesù o del santo protagonista dell’opera – presentava invece, anche nei polittici gotici (specialmente i più tardi), una maggiore varietà di composizioni e una più audace sperimentazione, sia per il carattere narrativo delle scene rappresentate – a differenza invece delle figure ferme della Sacra conversazione – sia perché era concessa al pittore, in una zona che non era il fulcro dell’opera, qualche libertà in più.
Nella pala che realizza per San Zeno a Verona Andrea Mantegna prova a superare questa impostazione tradizionale e ci riesce brillantemente. I personaggi sono gli stessi: al centro la Madonna in trono col Bambino, ai lati un vociare di Santi impegnati nelle loro attività identificative – un portare in vita, trasformandolo in carattere e in narrazione, l’espediente tradizionale dell’attributo riconoscitivo del Santo, operazione tipica del nuovo linguaggio rinascimentale che qui Mantegna interpreta in maniera
magistrale – ma non sono più isolati nella loro tavola; sono invece tutti chiaramente presenti nello stesso spazio, un loggiato marmoreo ornato da clipei figurati e bassorilievi, carico di festoni e putti di stampo classico. Lo spazio unificato dell’arte rinascimentale, però, non si ferma ai personaggi della pala: Mantegna, infatti, disegnò personalmente anche la cornice per la sua tavola, compito che, abitualmente, non spettava al pittore. Sceglie di suddividere la tavola – elemento, quello della divisione dello spazio, familiare ai veronesi ancora abituati ai polittici – ma lo fa con quattro colonne, anch’esse di gusto classico, che riproduce, in pittura, nella scena sacra.
Così facendo non soltanto la Madonna, il Bambino e i molti santi hanno modo, trovandosi sotto lo stesso (anticheggiante) tetto, di conversare verosimilmente tra loro: il fedele stesso, attraverso le colonne della cornice, realmente presenti sia nel suo spazio (di fronte all’altare) che in quello dei personaggi sacri (tanto che i due putti in primo piano vi si appoggiano), si ritrova egli stesso nello spazio unificato creato dalla pittura rinascimentale.