Eu Morri na Maré

z“Io sono morta alla Marè ieri. Il prossimo bandito potresti essere tu”. Sono queste le parole che accompagnano le inquadrature in dettaglio di un corpo di donna riverso a terra, privo di vita. Si tratta di una delle tante vittime innocenti travolte dalla folle guerra fra polizia e narcotrafficanti che piega la Maré, una delle favelas più pericolose di Rio de Janeiro; una delle tante, in Brasile, dove ogni giorno è in atto una lotta continua per la vita.Sono tre le bande di criminali che si contendono il controllo del territorio della Maré: Terçeiro comando, Comando vermelho e Amigos dos amigos; ogni qualvolta la polizia irrompe nella favela, scoppia una guerra sanguinosa che colpisce indistintamente tutti, lasciandosi dietro cicatrici indelebili, rabbia e rancore.“Eu Morri na Maré” (Sono morto al Maré) è un documentario di Marie Naudascher e Patrick Vanier, due giornalisti freelance francesi residenti in città e facenti parte del progetto “Reportagem pública”, indetto da Agência Pública e finanziato tramite crowfunding.Di fronte alle continue proteste del giugno scorso alle quali seguì la morte di 13 abitanti del Complexo da Maré e di un sergente del Bope – le squadre speciali – , Agência Pública ha deciso di esplorare le conseguenze dell’impatto della violenza sui bambini della comunità; ciò è stato possibile grazie al supporto di 808 donatori con i quali è stata messa in atto la distribuzione di 12 borse di reportages per giornalisti investigativi indipendenti.Il punto nevralgico del servizio, che condensa il fulcro dell’inchiesta, è per l’appunto contenuto, al di là delle interviste rivolte agli adulti che hanno sventato la morte nell’ambito di questa folle guerra, nella prospettiva dei bambini che subiscono la paura ed il dolore della situazione. Scopo del lavoro portato avanti è stato infatti quello di capire, assumendo lo sguardo dei più piccoli, come da essi viene filtrata e rielaborata la violenza, nonché vissuta ed interiorizzata.I due giornalisti hanno quindi trascorso due settimane nella scuola alternativa in cui dal 1998 ha luogo il Progetto Uerê, dove i bambini vittime di violenza hanno un metodo specifico di apprendimento e superamento della stessa.Il Brasile è uno dei Paesi che ha un altissimo tasso di bambini traumatizzati dalla violenza, spiega Yvonne Bezerra de Mello, ideatrice del progetto, la quale inoltre sottolinea quanto siano di fatto invalidanti le cicatrici interiori causate dai traumi della guerra della favela: dopo la sparatoria, infatti, esteriormente, tutto passa, ma una frattura all’interno si è oramai verificata, irreversibilmente. E si manifesta poi nei blocchi improvvisi, nel prosieguo della crescita, nelle difficoltà di apprendimento e di relazione che contraddistinguono i bambini più deboli.Il pericolo non è costituito dunque solo ed unicamente dalla criminalità organizzata. Anche la polizia contribuisce ad alimentarlo, non facendo differenza fra criminali e non, sparando spesso all’impazzata, senza motivo, ed alimentando una guerra in cui non ci sono buoni o cattivi né vinti e vincitori. I bambini del Progetto, interrogati sulle loro paure, rispondono quasi tutti allo stesso modo: abbiamo paura di uscire in strada senza sapere cosa accade e di morire; abbiamo paura che i nostri genitori, costretti ad uscire di casa presto, per andare a lavoro, vengano ammazzati. Cosa che spesso è accaduta ed accade.E da parte della polizia militare, nessuna risposta.

 

 Michela Graziosi

 

 

 

 

 

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