Se ci si sofferma a pensare all’arte del X secolo ad affacciarsi per prime alla coscienza saranno probabilmente opere di carattere religioso. Ma tra X e XI secolo l’Impero romano d’Oriente stava vivendo una stagione di grande revival dell’arte classica greca e romana: a dare inizio a questa ripresa fu l’ascesa al trono di Costantinopoli (l’antica Bisanzio, l’odierna Istanbul) di Basilio I, capostipite della dinastia dalla quale questo momento culturale prenderà il nome di Rinascenza Macedone.
Nelle sale del Victoria & Albert Museum di Londra è conservato un manufatto di piccole dimensioni che è testimone di questo periodo artistico e culturale di particolare raffinatezza, un oggetto ad uso pratico, decorato a tema profano: il Cofanetto di Veroli.
Si tratta di un contenitore rivestito d’avorio, un materiale (ricavato dalle zanne degli elefanti) che a partire dall’VIII secolo diventa sempre più raro a causa delle difficoltà di comunicazione tra l’impero e le zone africane e indiane che ne erano esportatrici e che fino all’epoca tardoantica era tradizionalmente utilizzato per le committenze degli aristocratici di più alto rango – imperatore e famiglia imperiale, consoli, nobili che potevano permettersi oggetti in questo materiale – e che proprio in epoca macedone torna ad essere disponibile. La menzione di Veroli nel nome deriva dalla provenienza del manufatto, custodito nella cattedrale della città laziale fino al 1861 e portato nel Regno Unito successivamente ad una vendita.
Nonostante la sua ritrovata disponibilità, l’avorio veniva utilizzato con parsimonia: soltanto le sottili lastre a decorazioni figurate, infatti, sono elefantine; le decorazioni non figurate – come le rosette a otto petali che scorrono tutto intorno al cofanetto – sono in osso di mammifero, un materiale bianco ma non altrettanto pregiato e dalla resa un po’ più opaca; l’anima del cofanetto era invece in legno.
Questo genere di manufatti era prodotto in serie, motivo per il quale ce ne sono arrivati più di un centinaio, e una strategia pratica utilizzata dagli artigiani per ottimizzare tempi e risorse è ben visibile osservando le bande in osso di mammifero ornate a rosette: queste bande venivano infatti prodotte a parte, in nastri ossei il più lunghi possibile, e al momento dell’assemblaggio venivano inserite senza preoccuparsi di mantenere intatto il disegno; si possono dunque trovare rosette tagliate a metà o lembi che non combaciano perfettamente tra loro.
Eppure la committenza era elevata: il materiale, seppur usato con moderazione, era estremamente prezioso; inoltre i soggetti delle scene mitologiche dei vari pannelli – il Ratto di Europa e le scene di danze sul coperchio a scorrimento, le storie di Bellerofonte ed Ifigenia e i cortei divini nei pannelli laterali – sono spie di un classicismo filologico: non genericamente anticheggiante, dunque, ma nato dalla lettura dei testi non soltanto dell’epica ma anche della più alta poesia greca. Nella scena del Sacrificio di Ifigenia, per esempio, un dettaglio ci suggerisce l’autore greco la cui opera dovette aver ispirato questa raffigurazione: l’indovino Calcante sta tagliando un ricciolo alla giovane legata e in procinto di essere sacrificata dal padre Agamennone ad una presunta ragion di stato, un dettaglio del mito che ricorre soltanto nell’Ifigenia in Aulide del tragediografo Euripide.