La più grande differenza tra la concezione cristiana di Dio e quella aristotelica consiste nel tipo di coinvolgimento che impegna l’uomo nel rapporto con la divinità. Ebbene, la teorizzazione teologica aristotelica rappresenta un Dio che, all’apice del cosmo non creato, funge da suo fondamento eterno. Il Primo Motore Immobile aristotelico, infatti, non è altro che un principio metafisico che sorregge – letteralmente – il cosmo in un modo che molto opportunamente Gilson ha descritto come il funzionamento di una centrale elettrica perenne. Il Dio aristotelico è una «centrale elettrica della natura» che mantiene eternamente inalterato il ciclo di corruzioni e generazioni delle sostanze. Si tratta, dunque, di una teologia (cioè di un discorso razionale sulla divinità) che non dà giustificazione di una creazione, che è un concetto assente dall’orizzonte culturale greco, né fornisce un senso preciso per la vita dell’uomo. Il Dio aristotelico si limita ad offrire un senso alla realtà nella misura in cui funge da spiegazione quantomeno della perenne formazione e distruzione delle sostanze, dei cicli astronomici e di una serie di altri fenomeni sia celesti sia sublunari che l’esperienza ci attesta. Sebbene il Dio aristotelico non dia giustificazione alcuna dell’origine assoluta del cosmo, riesce quantomeno a spiegarne alcuni fondamentali meccanismi, e questo potrebbe bastare a molte persone ad assicurare una certa ‘spiegazione’ ultimativa della realtà. A dire il vero questa teologia potrebbe finanche arrivare a costruire un basilare senso implicito della vita, nella misura in cui l’uomo potrebbe, senza sporgersi ulteriormente su questioni più profonde e radicali, ‘accontentarsi’ di sapere che all’apice della realtà esiste un principio che, in modo ordinato garantisce eternamente il movimento della vita. Sarebbe finanche (e quasi sorprendentemente) possibile estrapolare un’etica da una teologia simile, sintetizzabile nel principio: vivere katà phýsin. Vivere, cioè, in ottemperanza alle leggi eterne e ineluttabili che il cosmo, nella sue periodiche, ritmiche e ordinate manifestazioni ci consegna da sempre nell’esperienza empirica. Anche oggi, in un contesto molto diverso da quello greco, esistono persone che si limitano (più o meno consapevolmente) ad una spiegazione simile della realtà, arrendendosi all’idea, assai confusa, che un Dio in un momento imprecisato e in modo misterioso e inintelligibile ha creato tutto ciò che vediamo e pertanto, dato questo potere, a tale Dio viene riconosciuta una potenza assoluta. Non siamo molto lontani, ragionando in questi termini, da una visione che limita a spiegare che la realtà circostante è frutto di un’azione di un Dio (e tale azione può indifferentemente essere creatrice o sostentatrice). Il cristianesimo non si è limitato ad aggiungere ‘qualche concetto’ metafisico (quello di creazione o quello di pienezza d’essere) al Dio aristotelico. Detto in altri termini: il Dio venerato e amato dai cristiani non è semplicemente il Primo Motore Immobile con un potere in più, cioè quello creativo. Il carattere radicale – e in un certo senso rivoluzionario – del messaggio cristiano è in qualche modo contenuta implicitamente già nella frase precedente. Il nostro Dio non ci limitiamo a teorizzarlo e a indagarlo ma, in un modo assai peculiare e profondo, lo amiamo. Ebbene, il concetto cristiano di Dio assume quindi una connotazione radicalmente inedita nella storia della teologia occidentale. Esso, in altri termini, non è più soltanto un concetto freddo, delineato razionalmente da un esercizio formale della ragione, ma si trasforma in una sorta di concetto caldo, investito cioè di una affettività appassionante e significativa dal punto di vista relazionale. Non soltanto amiamo il nostro Dio, dunque, ma attraverso una storia dai contorni e dalle linee ben chiare (la storia della Rivelazione) sappiamo anche che Egli ci ama e che quindi è presente nella nostra vita sempre, come un Amico del quale ci fidiamo e che è presente anche quando è apparentemente assente. La fede cristiana è dunque, come ricorda Di Ceglie in un precedente contributo, un’«adesione personale a Cristo, motivata principalmente dall’amore di Dio del quale, per grazia divina, il cristiano partecipa» (R. Di Ceglie, Credere in Deum. Tommaso d’Aquino interlocutore della filosofia d’oggi, Aracne, Roma, 2014, p. 91). La differenza, dunque, tra il Dio aristotelico e quello cristiano, ben prima di ogni connotazione ontologica, si dà proprio a livello antropologico: nel primo caso si è di fronte ad una teologia fredda, disegnata da una ragione che cerca Dio a livello noetico e lo trova come fondamento del mondo. Nel secondo caso, invece, non soltanto la ragione ma anche il cuore dell’uomo cerca Dio e lo trova come Qualcuno in cui confidare, come un Interlocutore che dà senso esistenziale al mondo e a se stessi. È chiaro, dunque, che questa differenza antropologica ha poi un corrispettivo teologico nella differenza, già ampiamente analizzata e messa a fuoco nel corso dei secoli, tra il Principio Primo impersonale aristotelico e il Dio personale dei cristiani. Questa non certo marginale differenza ci dà, peraltro, anche l’occasione preziosa di riflettere sul collegamento profondo tra antropologia e teologia e sulla – presunta – impossibilità di occuparsi di quest’ultima senza un chiaro e sistematico riferimento alla prima.