LA RESIDENZA FISCALE DELLE PERSONE FISICHE

Vogliamo ripercorrere e delineare quelli che sono gli ambiti applicativi di talune norme fiscali e no, in ordine alla determinazione della residenza fiscale delle persone fisiche. Nel presente elaborato andremo ad analizzare le diverse fattispecie di casi che possono determinare la perdita o il mantenimento della residenza fiscale in Italia.

Analizziamo la normativa italiana e comunitaria che stabilisce i criteri da adottare per determinare la residenza fiscale dei soggetti passivi persone fisiche. L’argomento in parola è stato oggetto di numerose sentenze nel tempo che hanno delineato sempre più quelli che sono i criteri da utilizzare per determinare la residenza fiscale delle persone fisiche. Per quanto concerne invece la determinazione della residenza fiscale delle persone giuridiche, sarà oggetto di ulteriore approfondimento.

L’articolo 02 del DPR 917/1986 (TUIR) rubricato “Soggetti Passivi” dispone, con specifico riferimento alle persone fisiche, che (in base all’articolo 2) ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile; secondo l’art. 2-bis, si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale. Sulla base del disposto di cui al citato articolo di Legge assume rilevanza quindi anche la definizione civilista di residenza e domicilio statuita nel Codice civile.

Secondo l’Art.43 Codice civile, il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi; la residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale.

Con riferimento al dettato di cui all’art. 02 comma 2-bis del TUIR sopra citato è bene tenere in considerazione che gli Stati e i territori aventi un regime fiscale privilegiato ai fini di detto articolo, sono stati individuati con D.M. 4.5.1999 e s.m.i.

Le persone fisiche si considerano residenti nel territorio dello Stato se, per la maggior parte del periodo di imposta, sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile. Con la locuzione “per la maggior parte del periodo di imposta” ci si riferisce ad un periodo di tempo superiore a 183 giorni all’anno (184 se l’anno è bisestile), anche non continuativi.

Secondo il disposto del Codice civile è opinione prevalente che la residenza sia rappresentativa di uno stato di fatto e determinata dalla dimora abituale di una persona in un determinato luogo (elemento oggettivo) e dall’intenzione del soggetto di stabilire la propria dimora (elemento soggettivo).

Sono da considerarsi residenti (ai fini fiscali) in Italia anche i soggetti che, pur non essendo iscritti nelle anagrafi, hanno nello Stato il domicilio per la maggior parte del periodo di imposta. Va prestata molta attenzione al significato del termine “domicilio” che l’art. 43 del Codice civile identifica in “affari e interessi”, locuzione questa che va intesa in senso molto ampio con riferimento al termine interessi. Il termine Interessi va inteso con riferimento sia ai rapporti di natura economica e patrimoniale ma anche e soprattutto ai rapporti di natura familiare, sociale, con riferimento a quest’ultimo ambito di rapporti si fa riferimento al cosiddetto centro di interessi economico-familiari andando a considerare quindi elementi come la disponibilità di un’abitazione; la partecipazione a riunioni di affari; l’iscrizione a circoli e club; la presenza della famiglia; il luogo di accreditamento dei propri proventi; la titolarità di carica sociali.

In buona sostanza, l’attuale formulazione dell’articolo di Legge, prevede tre criteri per la determinazione della residenza fiscale nei confronti delle persone fisiche: 1) Iscrizione nell’anagrafe dei residenti; 2) Domicilio; 3) Residenza, aventi carattere alternativo tra loro. Il primo requisito ha natura meramente

formale mentre gli altri due sostanziale, inoltre come da circolare 01/2018 della Guardia di Finanza, domicilio e residenza devono essere desunti con ogni mezzo di prova. In presenza di iscrizione all’anagrafe è preclusa ogni ulteriore indagine volta a accertare la residenza della persona fisica, operando una presunzione assoluta e incontrovertibile in tal senso.

Riassumendo, chi trasferisce la propria dimora abituale all’estero senza cancellarsi dall’anagrafe dei residenti, deve a tutti gli effetti essere considerato fiscalmente residente in Italia per presunzione assoluta; viceversa, chi, pur avendo provveduto alla cancellazione dall’anagrafe dei residenti e alla successiva iscrizione all’AIRE mantiene in Italia la dimora o il proprio centro di interessi economico-familiari, continua ad essere considerato residente in Italia.

Ai fini del calcolo dei giorni all’estero si deve fare specifico riferimento al criterio della effettiva presenza fisica. Come meglio specificato anche dalla CM 201/E del 17/08/1996 ai fini di detto conteggio rilevano una frazione di giorno; il giorno di arrivo; il giorno di partenza; i sabati e le domeniche se vengono trascorsi nello Stato in cui l’attività viene esercitata; i giorni festivi se vengono trascorsi nello Stato in cui l’attività è esercitata; i giorni di ferie goduti nello Stato in cui l’attività lavorativa viene esercitata; le brevi interruzioni all’interno dello Stato in cui le attività sono svolte; i congedi per malattia, a meno che tale malattia non impedisca alla persona di lasciare il Paese quando avrebbe avuto, altrimenti, diritto ad essere ivi esonerata dall’imposizione sui redditi da attività di lavoro dipendente; i giorni trascorsi nel Paese ove è svolta l’attività per decesso o malattia di un familiare; per interruzione dovuta a scioperi o serrate; per interruzione dovuta a ritardi delle consegne.

Sempre con la CM 201/E del 1996 si è ritenuto invece di escludere la durata del tempo trascorso nel Paese in cui le attività sono esercitate, in transito tra due luoghi situati al di fuori di detto Paese, se la durata è inferiore a 24 ore; i giorni di ferie passate al di fuori del Paese in cui sono esercitate le attività; le brevi interruzioni (per qualsiasi motivo avvengano) che hanno luogo al di fuori del Paese in cui si esercita l’attività.

Sempre nella predetta circolare viene stabilito che nel caso in cui non sia agevole effettuare la verifica puntuale dei periodi di permanenza in Italia del lavoratore, è opportuno compiere adeguati accertamenti e riscontri presso le Autorità fiscali del paese estero, basando il tutto sullo scambio di informazioni tra Stati.

Secondo la normativa nazionale non esiste una previsione che consenta il frazionamento dell’anno d’imposta nel caso un soggetto perda/acquisti la residenza in corso d’anno. A tale riguardo bisogna invece fare riferimento alle convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate.

Il modello di convenzione OCSE all’art. 4 disciplina il caso in cui una persona sia considerata residente fiscalmente in due Stati. Tale situazione si può verificare in caso di trasferimenti in corso d’anno, seppur raramente, in quanto contemplata da specifiche convenzioni tra gli Stati (Svizzera e Germania). Attenzione però che è espressamente vietata la possibilità di applicare tale principio per analogia estendendone l’applicazione a Convenzioni diverse da quelle in cui è espressamente richiamato.

Pertanto, come richiamato anche dall’Agenzia delle Entrate con risoluzione 431 del 2008, il frazionamento del periodo di imposta è esclusivamente limitato ai casi in cui è espressamente previsto dalle convenzioni contro le doppie imposizioni tra Stati.

Il fenomeno del trasferimento fittizio della residenza all’estero è sempre un tema di attualità in ambito fiscale internazionale. La prima presa di posizione in tal senso risale al 1998 quando il Legislatore, nella finanziaria 1999, ha introdotto la “presunzione di residenza in Italia per tutti i soggetti emigrati in Paesi a bassa o nulla fiscalità”.

La CM 140/1999 fornisce un elenco delle prove che il contribuente può fornire a conferma dell’effettività del suo trasferimento, ritenendo pertanto validi gli atti/fatti che possano dare evidenza delle situazioni di seguito elencate nel Paese a fiscalità privilegiata. Nella fattispecie, la sussistenza della dimora abituale; la

frequenza di Istituti scolastici dei figli; la stipula di contratti di locazione; l’effettivo rapporto di lavoro a carattere continuativo in essere; l’iscrizione nelle liste elettorali; le utenze per servizi intestate al contribuente; la mancanza di unità immobiliari a disposizione in Italia.

Viene quindi data la possibilità al contribuente di esibire atti e fatti di prova idonei a respingere tale presunzione; tuttavia, non è cosa da poco quanto introdotto poiché ciò comporta un’inversione dell’onere della prova che passa dall’Amministrazione finanziaria al contribuente.

Per quanto attiene al momento in cui debba essere esibita la prova, è plausibile ritenere che il contribuente sia tenuto a raccogliere tutti gli elementi di prova necessari a dimostrare la sua effettiva residenza nel Paese a fiscalità privilegiata e che tale documentazione vada esibita solo a seguito di richiesta da parte dell’Agenzia Entrate.

Con la circolare 25 del 18/08/2023 l’Agenzia delle Entrate affronta il tema della residenza fiscale con riferimento al lavoro in Smart Working fornendo alcuni chiarimenti. Anche per il lavoro c.d. da remoto, ai fini dell’imponibilità fiscale, viene confermata la regola generale volta a valutare la presenza fisica del lavoratore nel territorio dello Stato al momento della prestazione lavorativa da questi svolta.

Non si ritiene quindi rilevante il concetto che la manifestazione di tale lavoro abbia riflessi nell’altro Stato contraente rispetto a quello in cui è stabilito il lavoratore.

Come da circolare 25/2023, si possono elencare alcuni casi pratici in merito. Nella fattispecie, si ipotizzi, ad esempio, il caso di un cittadino straniero, non iscritto nelle anagrafi della popolazione residente, che lavora dall’Italia in smart working per un datore di lavoro estero, permanendo per la maggior parte dell’anno solare presso un’abitazione ubicata nel nostro Stato unitamente al coniuge e ai figli. In tale circostanza, sebbene non risulti soddisfatto il requisito formale di iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente, non si può non considerare che per la maggior parte del periodo d’imposta il cittadino estero mantiene stabilmente nel territorio dello Stato la sede principale dei suoi rapporti personali e affettivi (familiari) e la sua dimora abituale. Pertanto, considerato che – come anticipato – i criteri previsti dall’articolo 2, comma 2, del TUIR risultano tra loro alternativi, nell’ipotesi di cui sopra, il soggetto avrà radicato la propria residenza fiscale in Italia. Ancora, si consideri il caso di una cittadina italiana che si è trasferita all’estero, dove svolge un’attività lavorativa in smart working, e ha mantenuto l’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta. Tale contribuente, anche qualora avesse trasferito all’estero il suo domicilio e la sua dimora abituale, continuerà a qualificarsi come residente in Italia in ragione del requisito anagrafico, per cui dovrà sottoporre a tassazione tutti i suoi redditi nello Stato italiano, salvo il disposto della normativa convenzionale qualora applicabile. Analogamente, il cittadino italiano iscritto all’AIRE per la maggior parte del periodo di imposta, che abbia sottoscritto un contratto di lavoro con un datore estero nel quale sia indicata come sede ordinaria di lavoro il Paese risultante dall’iscrizione all’AIRE (o altro Stato estero), potrà considerarsi fiscalmente residente in Italia qualora vi mantenga la dimora abituale, dalla quale svolga la prestazione lavorativa con modalità agile.

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