Sull’imperfetta inclusione scolastica

Nelle ultime settimane è ritornato in voga il tema (che per molti apparteneva alla preistoria della scuola italiana) delle classi differenziali. Stando alle parole del professore Ernesto Galli della Loggia la presenza di questi studenti rischierebbe addirittura di rallentare il fisiologico flusso della didattica. Questioni piuttosto teoriche si legano, in questa tesi particolare avanzata dal professore, a questioni che potremmo definire ‘più pratiche’, creando una situazione assai complessa in sé e assai complicata da dirimere. Dalla mia prospettiva, che è quella dell’insegnante di sostegno (insegnante specializzato in attività di sostegno didattico) c’è da dire che le perplessità del professore in questione potrebbero essere in qualche modo persuasive. Si consideri un fatto assai banale, ma di un’importanza centralissima nella dinamica inclusiva, e che si potrebbe riassumere in questi termini: le classi scolastiche sono spesso – non sempre per fortuna – assai chiassose, scomposte e costituite frequentemente da soggetti esuberanti. Si consideri inoltre che la disabilità di alcuni studenti (mi riferisco a studenti con autismo, con disabilità intellettive più o meno gravi ma anche a studenti con gravi forme di ADHD) determina in essi una bassissima soglia di distraibilità, una marcata irascibilità e una incapacità di governare cognitivamente le stimolazioni ambientali. Già queste considerazioni ci porterebbero ad interrogarci criticamente – non d’accordo ma in linea con quanto affermato da Ernesto Galli della Loggia – sulla qualità del processo inclusivo che si tenta di realizzare nelle nostre classi. È vero che, in linea teorica, stando al noto principio dell’accomodamento ragionevole, i temperamenti degli studenti in classe potrebbero, nel segno del rispetto verso la disabilità, moderarsi per creare un ambiente sereno e funzionale al lavoro didattico. È altrettanto vero, però, che la realtà dei fatti è spesso molto diversa dalle più luminose aspettative teoriche. Non sempre, infatti, gli adolescenti delle nostre scuole comprendono pienamente quanto l’esuberanza dei loro comportamenti o anche solo l’incapacità di moderare il tono della voce nelle normali dinamiche socio-relazionali, possano ledere all’equilibrio cognitivo ed emotivo degli studenti con disabilità. Molto spesso, pertanto, noi insegnanti di sostegno siamo costretti – nel mio caso da esplicite richieste del “mio studente” – ad abbandonare momentaneamente la classe per accedere a locali più sereni e tranquilli della scuola. Questi momenti (a volte ore intere) di decompressione fuori dalla classe sono difatti necessari per i nostri studenti più fragili. Bisogna quindi interrogarsi criticamente, ben oltre ogni pregiudizievole riparo del ‘politicamente corretto’, sull’idoneità dell’ambiente classe rispetto all’inclusione di studenti con disabilità (questo tema meriterebbe ulteriori approfondimenti che in questa sede non è possibile fornire per motivi di spazio). C’è da dire, inoltre, che gli studenti con disabilità non rallentano affatto i processi didattici, e anzi molto spesso a rallentarli sono invece gli studenti cosiddetti normotipici, sempre più indifferenti all’importanza della cultura, della conoscenza e delle discipline tradizionali. L’insegnante curriculare non è, a livello pratico, bloccato o rallento dalle capacità ridotte o compromesse degli studenti con disabilità cognitiva. Potrebbe al massimo essere disturbato qualora lo studente con disabilità metta in atto comportamenti disfunzionali, che però sarebbero immediatamente corretti, neutralizzati o limitati dall’intervento dell’insegnante di sostegno. Quest’ultimo è la figura preposta alla mediazione didattica dei contenuti. Certamente questa mediazione nasce inoltre dal dialogo e dalla collaborazione costanti che l’insegnante di sostegno realizza con gli insegnanti curriculari. Questi indicano all’insegnante di sostegno gli argomenti che tratteranno, il modo in cui lo faranno, gli approfondimenti necessari, i possibili collegamenti con le altre discipline, i passaggi che realizzeranno, le difficoltà e i mezzi per farvi fronte. Questa è, tuttavia, una normale collaborazione interna al consiglio di classe e non vedo come possa configurarsi come limitazione della realizzazione didattica ai danni del lavoro dell’insegnante curriculare. Difatti è poi l’insegnante di sostegno a mediare realmente questi contenuti e ad affrontare, nell’ambito della relazione personale con lo studente con disabilità, le difficoltà che sorgono di volta in volta. Questa non è una forma di de-responsabilizzazione didattica dell’insegnante curriculare nei riguardi degli studenti con disabilità. Si tratta invece di una dinamica assai funzionale che vede coinvolti, nella fase progettuale, gli insegnanti curriculari e l’insegnante di sostegno (che si cimentano nel design della lezione e nella scelta della programmazione) e nella fase di realizzazione soltanto – o, sarebbe più corretto dire, perlopiù – l’insegnante di sostegno. Non si comprende, pertanto, in che modo gli studenti con disabilità possano, nel merito delle reali e quotidiane dinamiche della classe, esser d’impedimento o d’intralcio alla didattica. Semmai bisognerebbe interrogarsi piuttosto proprio sull’utilità di una mediazione dei contenuti didattici a studenti con particolari difficoltà. In altri termini converrebbe riflettere sul senso stesso di una didattica – sebbene adeguatamente mediata, facilitata, semplificata e ridimensionata in taluni casi – per studenti con disabilità. Forse sarebbe il caso di ripensare la didattica stessa immaginando percorsi maggiormente utili a questa tipologia di persone, proprio per valorizzarne massimamente le esigenze, le aspettative e gli strumenti per far fronte alla vita quotidiana (molti di essi mi hanno giustamente chiesto, riferendosi allo studio dell’antica Mesopotamia: «prof, ma a cosa mi serve?»). Se è vero, infine, che la socializzazione che si realizza in classe è imprescindibile per il corretto sviluppo delle competenze sociali degli studenti con disabilità (ogni forma di apprendimento ha sempre una dimensione sociale), bisogna infine chiedersi se il tipo di socialità che si realizza nelle nostre classi possa davvero avere – sempre e comunque – un’influenza benefica sui nostri studenti più fragili. Ci sono infatti casi in cui questi studenti assorbono, per una fisiologica forma di emulazione, comportamenti dannosi che realizzano poi a loro volta, privi però di quel controllo degli impulsi e quella capacità di gestione delle emozioni che caratterizza la loro disabilità. Capita a volte, invece, che questi studenti possano mettere in atto comportamenti problema realmente lesivi nei riguardi degli altri e la scuola italiana ad oggi non dispone di nessuna strategia né di personale specializzato per far fronte a queste vere e proprie crisi (l’unico argine è l’insegnante di sostegno, a volte coadiuvato dagli stessi insegnanti curriculari o da assistenti educativi, sebbene siano presenti per una ridotta percentuale del tempo scolastico settimanale). Esiste quindi un senso in cui l’inclusione scolastica potrebbe essere criticamente interrogata. Tutto ciò non vuol dire negare i buoni principi (etici, antropologici, didattico-inclusivi) da cui essa ha preso le mosse né tantomeno vuol dire ritornare indietro di decenni, approdando nuovamente a forme di alienazione sociale. Riflettere vuol dire innanzitutto preservare i punti di forza della nostra scuola, cercando di capire quale soluzione (che non sia l’alienazione) possa veramente risultare utile per risolvere i problemi che pur ci sono nelle dinamiche inclusive dei nostri fragili studenti.

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