Capire che le “Architetture Inabitabili” potessero determinare interesse e meraviglia è stata Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà, ideatrice della esposizione: “Due le emozioni ispiratrici: la frase di Pavese nel romanzo La Spiaggia che scrive “niente è più inabitabile di un posto in cui siamo felici e il ricordo di un silo abbandonato vicino al Po nel quale cresceva un albero”. Per l’ideazione della mostra che ho curato con l’architetto Dario Dalla Lana, è stato determinante anche il mio incarico a Cinecittà: teatri di posa che rappresentano l’architettura inabitabile per eccellenza, luogo operoso abitato da personaggi di finzione”.
La rassegna, concepita per manifestare la complessità di alcune architetture inabitabili in Italia, strutture realizzate dall’uomo, edificate e mai abitate, descrive otto esempi presenti su tutto il territorio nazionale mediante una predilezione di fotografie che sono suddivise per tipologia, destinazione d’uso e periodo di costruzione.
L’esposizione, aperta ai visitatori dal 24 gennaio al 5 maggio 2024 presso la Centrale Montemartini in Roma, propone un reale viaggio architettonico, culturale e artistico attraverso più parti italiane, da nord a sud.
L’evento è promosso da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, e organizzata e realizzata da Archivio Luce Cinecittà. I servizi museali sono di Zètema Progetto Cultura.
Per la sua attuazione sono stati coinvolti vari archivi e istituzioni, delle 150 immagini mostrate circa 40 provengono dall’enorme patrimonio Archivio Luce di Cinecittà con video storici e testi inediti di scrittori.
Le otto architetture immortalate, alcune celebri altre meno note, diventano il prodotto di una riflessione profonda sulla loro inabitabilità e sulla loro bellezza e la mostra è caratterizzata da una importanza simbolica e da una vitalità in continua evoluzione di esse.
Una retrospettiva che riprende anche l’antico utilizzo della luce, commissionando scatti e racconti a grandi autori italiani come Gianni Berengo Gardin, Guido Guidi, Marzia Migliora, Gianni Leone e altri. A livello internazionale si distinguono le fotografie di Mark Power, Sekiya Masaaki, Steve McCurry.
Il catalogo di “Architetture Inabitabili” è stato ideato come un vero libro d’arte con le spettacolari immagini di Francesco Jodice e Silvia Camporesi, dalle quali è stata tratta la copertina.
Edoardo Albinati racconta: “nulla come il Gazometro a Roma rammenta l’avanguardia del Novecento, che oggi è anch’essa divenuta a suo modo archeologia, certo, ma che contorna di un opaco splendore il profilo estetico della città esattamente come, in certi quadri, il paesaggio sullo sfondo fa risaltare ancora di più le figure in primo piano”.
Ciò è attestato dalla foto del Gazometro scattata da Paolo Di Paolo che celebra un solitario Pasolini e la foto di Totò ne La banda degli onesti.
Nella Capitale è quasi impossibile non conoscerlo e non averlo mai visto, denominato “Colosseo industriale” o “Colosseo Moderno”, è definito come gasometro o gazometro e veniva utilizzato a immagazzinare il gas di città. Ora è un grandissimo manufatto di archeologia industriale.
Gli interventi in quell’area, un’ansa del Tevere del quartiere Ostiense furono: il Porto Fluviale, la Centrale Termoelettrica Montemartini, i Mercati Generali, il Consorzio Agrario, gli impianti Mira Lanza e i Molini Biondi, e appunto lo stabilimento del gas.
Nell’estate del 1937 la struttura fu definitivamente terminata e il gazometro entrò in funzione. Il gas fu adoperato per illuminare Roma in virtù di Pio IX dalla seconda metà dell’Ottocento e dal 1890 cominciò ad essere adoperato per le abitazioni. Oggi il gazometro è un nodo di smistamento del gas in tutta Roma.
Esso è stato molto utilizzato come sfondo per scene di film come Accattone di Pier Paolo Pasolini e Le fate ignoranti di Ozpetek.
L’enorme costruzione è attualmente divenuta parte integrante di Roma e del suo paesaggio urbano, però durante gli anni sono stati tanti i progetti mai realizzati: dalla Città della Scienza alla Casa dello Studente fino alla Biblioteca centrale di Roma Tre.
Presenti poi gli scatti del Memoriale Brion a San Vito di Altivole. Il complesso funebre monumentale fu commissionato all’architetto-designer Carlo Scarpa da Onorina Brion Tomasin in ricordo dell’amato coniuge Giuseppe Brion, morto prematuramente. La tomba fu commissionata all’architetto nel 1969, che vi lavorò fino al 1978, anno della sua scomparsa in Giappone e Il medesimo Carlo Scarpa volle essere sepolto in tale posto.
Il cimitero del piccolo paese è in una posizione isolata nella campagna coltivata. L’ampia zona monumentale Brion è ariosa, con vaste aiuole prative, grandi vasche d’acqua che addolciscono la soffocante profusione di cemento armato. Ogni componente evidenzia una grande ricerca dei piani e degli elementi simbolici, con l’acqua fonte di vita.
Opera matura del Maestro, indiscusso nel trattare il cemento armato a nudo con finalità grafiche decorative, con inserti di tasselli e mosaici colorati di Murano, finiture in bronzo, sapientemente miscelate nell’atmosfera sicuramente surreale che contemporaneamente si identifica con la filosofia Zen e nell’arte Giapponese contraddistinta da vasche e da canalette d’acqua.
L’oppressione del cemento e l’atmosfera grigia riconducono alla gravità della condizione cimiteriale. Però, nonostante tutto la nostra mente si rasserena nella contemplazione e nella intensa meditazione attraverso gli specchi d’acqua, specchi di luce e lembi di cielo. L’opera con i suoi dettagli è fatta di materiali compositi e colori, usati in modo molto sobrio e minimalista.
Altre immagini rappresentano il Lago di Resia con il suo iconico campanile al suo interno, idioma di Curon Venosta e della Val Venosta, posto quasi fiabesco. L’architettura si erge poco lontana dalle rive, nello specchio d’acqua chiara appunto del lago. La leggenda racconta che, nelle notti d’inverno, quando il lago ghiaccia e il campanile si può raggiungere a piedi, si sentono ancora suonare le campane, che però furono rimosse nel 1959 prima della creazione del bacino artificiale.
Poi vi sono le fotografie ritraenti il Cretto di Ghibellina, intervento di Land Art ideato dall’artista Alberto Burri. La composizione di arte ambientale è un memoriale che racchiude e custodisce in termini fisici e metaforici la traccia del passato e della esistenza della comunità sconvolta dal sisma.
L’opera, che sul piano formale riproduce la tipologia dei Cretti determinati dall’artista negli anni Settanta, si estende in scala monumentale lungo il pendio della montagna, sulle macerie della città. Il Cretto è realizzato attraverso 22 cubi di cemento bianco che rievocano la struttura delle case sottostanti, un labirinto che può essere percorso camminando tra gli spazi che separano i blocchi e ricordano le antiche strade del paese.
Menzioniamo ancora nella mostra svariati scatti del Lingotto, quartiere della Circoscrizione 8 di Torino, ubicato a sud est della città. Quando parliamo di Lingotto, la prima associazione è sicuramente con la Fiat, che impiantò il suo stabilimento di produzione di automobili nel 1915, prendendo il nome dalla cascina agricola che sorgeva nella zona denominata Basse del Lingotto o anche Cascina Juva. Nel XVI secolo prese il nome dai nobili Lingotto o Lingotti, già signori di Moncalieri.
La Fiat Lingotto portò un veloce sviluppo economico dal 1922 al 1936 e anche la famosa pellicola cinematografica del film The Italian Job del 1969 fu reputata rilevante poiché immortalò la celebre pista di collaudo di automobili posta sul tetto dello stabilimento Fiat, da cui odiernamente si può beneficiare di un panorama eccezionale.
Evidenziamo poi le immagini degli Ex Seccatoi del Tabacco nella Città di Castello attuati da Silvia Camporesi. Il complesso inaugurato nel 1990, completa l’organica Collezione Burri di Palazzo Albizzini con l’esposizione dei grandi cicli eseguiti da Alberto Burri tra il 1979 e il 1993. Le vaste strutture della Fattoria Autonoma Tabacchi, edificate nella seconda metà degli anni Cinquanta per l’essicazione del tabacco tropicale prodotto in zona, vennero dismesse negli anni Settanta.
Il Maestro nel 1978 ne acquisì l’utilizzo come laboratorio per la creazione di opere di grande formato. Nel 1989 la Fondazione Palazzo Albizzini acquisì l’intero complesso dando il via al progetto generale di ristrutturazione per accogliere i lavori dell’artista, al quale si deve non solo la scelta delle architetture ma anche delle composizioni e la loro collocazione. Gli enormi padiglioni, totalmente neri hanno al suo interno 128 grandi capolavori divisi per cicli.
Durante l’ottantesimo compleanno di Giuseppe Ungaretti fu pubblicato il libro di poesie di Bruna Bianco e Ungaretti con una Combustione omaggio di Alberto Burri. Nella copia che i due poeti dedicano ad Alberto Burri, Ungaretti scrive: “Amo Burri, perché non è solo il pittore maggiore di oggi, ma è anche la principale causa d’invidia per me: è d’oggi il primo poeta”.
Le rappresentazioni mostrate della Torre Branca sono di Francesco Jodice: “ho cercato di trovare una mia relazione tra la torre e il significato iconico che questo artefatto ha per la città. Ho ricostruito una sorta di memoria del luogo attraverso brani cinematografici, letterari che avevano messo questo artefatto al centro della storia di Milano. Il mio intento è stato quello di dare una restituzione surreale, metafisica, di offrire nuovamente una centralità a questa architettura rispetto al paesaggio circostante”.
Essa, disegnata da Gio Ponti è ritenuta una vera opera d’arte, “in cui l’architettura moderna e la tecnica nuova trovano un punto di contatto”. Esile e trasparente, reale sfida architettonica viene costruita rapidissimamente in soli due mesi e mezzo nel 1933, in occasione della V mostra Triennale, insieme a sei grandi archi isolati, temporanei, progettati da Sironi.
La struttura principale della Torre ha forma tronco-piramidale a sezione esagonale, dal lato di sei metri alla base, a quota 100 metri il lato dell’esagono è ancora di 4,45 e la rastremazione molto leggera le trasmette un aspetto assai prismatico.
“Confesso che mentre conoscevo i Seccatoi, i Palmenti sono stati per me una vera scoperta anche perché, abbandonati negli anni Sessanta, sono stati riscoperti di recente grazie ad una foto diventata virale sui social. Sono diventati una meta turistica, ed è molto interessante vedere come anche una fotografia possa creare interesse su un certo luogo”, scrive Silvia Camporesi.
I suoi scatti sono infatti esempi di architettura rupestre in Basilicata. Delle costruzioni a forma di grotta ricoperte di terra ed erba e raggruppate in villaggio dove fino agli anni Sessanta vi era la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto. Al momento tale splendido luogo abbandonato che è ubicato ai limiti di Pietragalla, borgo del vino in Lucania, è conosciuto quale Parco urbano dei Palmeti.
Mediante lo scavo della roccia di Pietragalla si conseguiva anche il materiale per la muratura e la esecuzione della copertura a volta che caratterizza queste architetture semplici, che creano le condizioni climatiche ideali per la lavorazione e fermentazione del vino.
La mostra rappresenta un’opportunità esclusiva di approfondimento delle architetture inabitabili italiane, per riflettere sulla loro rilevanza simbolica e gli spettatori potranno ammirare la profusione e la complessità delle architetture italiane che, nonostante la loro inabitabilità, infondono attrattiva, ispirazione ed estro creativo tramite la loro importanza culturale e storica.