I confini dell’alterità / The Contours of Otherness
Dieci artisti internazionali protagonisti di una rassegna d’arte contemporanea dedicata ai temi della migrazione e dell’incontro dell’altro da sé. Le opere esposte in occasione della Biennale in tre diversi spazi del Ghetto cinquecentesco di Venezia
Il Museo ebraico di Venezia, in occasione della 60esima Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia 2024, Stranieri ovunque/Foreigners Everywhere, propone una mostra sull’esperienza migratoria intitolata: “I confini dell’alterità / The Contours of Otherness” che aprirà ufficialmente domenica 21 aprile.
La curatela è della Direttrice del Museo ebraico di Venezia, Marcella Ansaldi, insieme a Jemma Elliott-Israelson e Avi Ifergan. La mostra, promossa e organizzata dalla Comunità ebraica di Venezia con Opera Laboratori e Shifting Vision, terminerà il 27 ottobre 2024.
Il filo conduttore dell’esposizione ha un puntuale storico collegamento con l’intera area di Cannaregio, dove nacque nel 1516 il Ghetto, quale luogo di confinamento di ebrei, che mai ottennero il diritto di cittadinanza da parte della Repubblica veneziana. L’esperienza culturale lasciata dai numerosi viandanti, stranieri e migranti, ci ha lasciato oggi un esempio di umana convivenza e reciproco arricchimento da cui poter trarre ispirazione.
La mostra coinvolge 10 artisti internazionali contemporanei – quattro di questi per la prima volta impegnati in un’esposizione in Italia – in una riflessione attualissima sul tema del viaggio, perseguito o subito, e della crisi dell’identità culturale che ne può conseguire.
Nelle opere esposte, lo scontro potenzialmente destabilizzante con l’altro diventa confronto e occasione fondante di definizione di sé. I “confini dell’alterità”, come recita il titolo dell’esposizione, non sono limiti invalicabili, ma luogo di incontro tra storie e culture, spazio in cui ci si specchia nell’altro e in sé stessi e si affondano le radici della memoria individuale e collettiva.
L’arte contemporanea, e in particolare le opere scelte, mirano a suscitare empatia, incoraggiare riflessioni e mettere in luce l’esperienza umana comune della migrazione. L’arte funge da ponte tra le differenze, promuovendo il dialogo e il senso di unione. Mettere culture, sensibilità e conoscenze a confronto sul tema dell’alterità ha prodotto una interessantissima esperienza artistica e umana: ogni artista a proprio modo ha saputo declinare attraverso pittura, scultura, videoarte e suono, il tema proposto.
All’interno dell’esposizione si potranno trovare opere pittoriche come quella di Amit Berman, A Transferable Safe space, realizzata dopo un periodo in cui l’artista ha vissuto lontano dalla famiglia, dagli amici e dall’intimità della sua casa in Israele. Il dipinto riflette il suo mondo interiore e il bozzolo che l’artista ha creato per sé all’interno di un ambiente estraneo, diventa così metafora visiva della tensione e del compromesso tra il conservare le proprie radici e l’adattarsi a un nuovo contesto culturale.
Saranno presenti installazioni caratterizzate dalla caducità come quella presentata da Lucas e Tyra Morten: Viga, ovvero un’intera struttura fatta di cera e che brucia lentamente fino a consumarsi completamente col tempo. Questo processo di combustione diventa metafora della dissoluzione del sé durante il processo migratorio, mentre la metamorfosi perpetua qui rappresentata riflette il continuo adattamento dell’individuo ai nuovi ambienti e contesti.
Si serve dell’animazione 3D Yael Toren che presenta in mostra due video: Pieta e Dis-tense/Terracotta e due manufatti: Chopsticks e Hands Up Pieta. In questi lavori l’artista unisce religiosità e tecnologia, servendosi di quest’ultima per sollevare questioni etiche riguardanti il tema dell’Altro e della sua Alterità. Con la sua arte Toren ci guida in un viaggio filosofico caratterizzato da un forte dualismo attorno al tema attuale dell’etica che al tempo stesso diventa un’esperienza mistica travolgente.
Stanzialità obbligata, spostamento, fuga, ma anche scelta identitaria, rinnovamento, coscienza e mutamento, sono i temi su cui gli artisti sono chiamati al confronto.
“Non c’è forse luogo, più del Ghetto di Venezia, che possa indicare la strada della convivenza fra diversi. Costruitosi nel sospetto, ospitato con la diffidenza dedicata a ogni diversità, il Ghetto si offre oggi come spazio di accoglienza, uno spazio aperto che afferma il principio dell’ospitalità, e avvia, attraverso l’arte, un dialogo con l’altro, in una diversità di origini e di lingue che raccontano l’illimitata diversità delle storie”. (Dario Calimani, Presidente della Comunità ebraica di Venezia).
“Sono entusiasta che Shifting Vision abbia preso parte a questa straordinaria mostra dedi cata alle diverse prospettive sui temi della migrazione, dell’identità e della memoria culturale e, come sostenitore dell’interazione tra arte e umanità”. (Edouard Sterngold, fondatore di Shifting Vision).
“Gli artisti coinvolti provengono da Francia, Germania, Stati Uniti, Israele e Giamaica. La scelta di persone che lavorano in ambito internazionale, senza etichette di appartenenza o credo religioso, ha costituito il pre-requisito per poter partecipare alla mostra. Mettere culture, sensibilità e conoscenze a confronto sul tema dell’alterità, ha prodotto una interessantissima esperienza artistica e umana, ogni artista a proprio modo ha saputo declinare attraverso pittura, scultura, videoarte e suono, il tema proposto”. (Marcella Ansaldi, Direttrice del Museo Ebraico di Venezia).
“Challah, un’opera commissionata a Elisheva Revah appositamente per la mostra, prende le mosse dalla simbologia del tradizionale pane ebraico. L’artista associa la challah alla migrazione, alla femminilità e al concetto di casa all’interno della diaspora. Il video di Revah è strutturato come un dittico. Su uno schermo, tre donne lavorano lentamente a intrecciare 100 chili di impasto, mentre su quello gemello altre tre figure femminili intrecciano lenta mente i capelli di una donna incinta, così folti e lunghi da arrivare fino a terra e da ricadervi per un metro”. (Jemma Elliott-Israelson, curatrice della mostra).
“In uno spazio virtuale, servendosi delle più avanzate tecnologie di animazione 3D, Toren riproduce l’iconica Pietà attraverso un movimento senza fine di stranieri e immigrati nel deserto dell’esistenza virtuale. I concetti di spazio, tempo, corpo e origine vengono abbattuti per dar vita a un’epopea cinematografica di migrazione e di infiniti rifugiati che, nella loro ricerca, avanzano in cerchio, fino a convergere su sé stessi in una sorta di esistenza sisifea”. (Avi Ifergan, curatore della mostra).
L’esposizione avrà luogo in tre spazi del ghetto: Ikona, Lab e Azzime, prenotazioni possibili al numero: 041 5246083 oppure su Vivaticket Ghetto Venezia.
A Spazio Ikona espongono: Danny Avidan, Amit Berman, Jonathan Prince, Elisheva Reva, Flora Temnouche. In Spazio Lab: Lucas e Tyra Morten, Laure Prouvost, Lihi Turjeman, Deborah Werblud.
Allo Spazio Azzime Yael Toren.
Curatore degli artisti di Spazio Ikona e Spazio Lab la giovane ventinovenne Jemma Elliott-Israelson, mentre per Spazio Azzime Avi Ifergan, con coordinamento e assistenza di Nadia Gheras.
L’esposizione sarà corredata dal catalogo in doppia lingua edito da Sillabe.