«C’è chi mi domanda se non mi dia fastidio vivere da solo, in una casa avvolta dal silenzio. Io però al silenzio sono abituato […]. Sono nato e cresciuto in un Grande Silenzio. E devo dire che mi piace, è meglio della confusione».
Con la sua autobiografia “Il silenzio è stato il mio primo compagno di giochi” (Newton Company editore, 2015), Roberto Wirth trasporta il lettore nel suo percorso “silenzioso” che, da bambino nato in una famiglia ricca ma con una grave disabilità e spesso trascurato dai suoi affetti, lo ha portato a essere il direttore generale del lussuosissimo Hotel Hassler, uno dei più iconici della Città Eterna. La narrazione è serrata e ricca di momenti drammatici, intimi, di grande sofferenza, raccontanti attraverso un’analisi lucida e autoironica che scorta il lettore per tutta la durata della narrazione, dai primi anni, di profonda incomprensione e solitudine, agli anni di formazione individuale e di istruzione negli Stati Uniti, dove nonostante la sordità Wirth è riuscito a vivere fra gli udenti, quasi come fosse uno di loro; a fare da cornice alle vicende del protagonista è il difficile rapporto con il padre, tanto eccellente nel lavoro quanto austero negli affetti, e con la madre, allegra e affettuosa ma spesso «incapace di amare il figlio come avrebbe meritato», per sua stessa ammissione. La sordità era infatti vista come un handicap insormontabile negli anni ’50, tanto che erano previste scuole speciali per i bambini colpiti da questa malattia: Roberto viene spedito in tenerissima età a studiare in uno di questi istituti a Milano, ma la lontananza dalla famiglia, avendo lui solo cinque anni, rende la cura peggiore del male, dando inizio a un periodo di profonda solitudine solo in parte lenito dagli sforzi di una amorevole tata. Ne consegue che il filo conduttore della vita di Wirth specie negli anni di formazione sia il forte desiderio di riscatto nei confronti della propria famiglia, che a causa della sua disabilità non lo vede (quantomeno inizialmente) in grado di perpetuare la tradizione di hôtellerie da sempre propria dei suoi avi.
«Quando la gente mi guarda, pensa che io sia come tutti gli altri, perché la sordità non ha segni evidenti, è un handicap invisibile. Così, spesso, una persona sorda viene scambiata per un qualunque udente. Non lo è affatto, però può riuscire a raggiungere gli stessi traguardi. Come ho fatto io».
Il principale merito di questa autobiografia è quello di fornire una testimonianza di grande valore sulla condizione delle persone sorde in Italia e nel mondo: l’immagine che esce del nostro Paese è tristemente negativa, sia dal punto di vista della consapevolezza dei problemi e delle necessità dei sordi da parte delle istituzioni, sia dal punto di vista delle misure adottate nei loro confronti nei luoghi di tutti i giorni come gli uffici, le scuole, gli ospedali. La lettura, pur con alcuni momenti di stallo, si rivela piacevole e fluida: il più grande traguardo raggiunto dagli autori (Wirth è infatti coadiuvato da Corrado Ruggeri nella narrazione) è senz’altro il rendere “leggero” il racconto di una disabilità, vissuta – pur nei momenti di maggior pathos emotivo – con orgoglio, senza mai scendere nel patetico: nonostante la malattia, rimboccandosi le maniche si possono raggiungere obiettivi straordinari.
«Non ci piace esser chiamati “non udenti”, esser caratterizzati per qualcosa che non siamo. Preferiamo usare la parola sordo, che non è un insulto!».