Le Conferenze di Stoccolma e Rio e il Protocollo di Kyoto: la nascita del regime internazionale di tutela ambientale

La nascita del regime internazionale di tutela dell’ambiente, almeno a livello progettuale, si deve alla Conferenza di Stoccolma (1972), nata sotto l’egida delle Nazioni Unite e istitutiva dell’UNEP, il “Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente”. Roberto Belloni, Manuela Moschella e Daniela Sicurelli, in “Le organizzazioni internazionali”, sottolineano come l’UNEP, oltre alle funzioni che gli sono attribuite dagli Stati su base volontaria, possiede poteri irrisori, configurandosi principalmente come un dispositivo di diffusione di informazioni, prove scientifiche e best practices in ambito di tutela dell’ambiente.

Un notevole impulso alla disciplina si raggiunge nel 1992 quando, con la Conferenza di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo, viene evidenziato come l’emissione dei cosiddetti “gas serra” (sostanzialmente la CO2) abbia un impatto elevato sul riscaldamento globale. Contestualmente si procede all’istituzione della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), in base alla quale le Parti sono tenute a riunirsi a cadenza annuale allo scopo di valutare lo status di attuazione degli obiettivi definiti a Rio, annunciando regole per limitare le emissioni. Da quel momento, si svolgono annualmente le Conferences of Parties (COP), in occasione delle quali sono stati conclusi significativi accordi circa riduzione delle emissioni, obiettivi comuni e strutture di enforcement per assicurarne il rispetto.

Tra questi accordi, il più noto è il Protocollo di Kyoto, sottoscritto durante la COP del 1997 il quale, sulla base del principio “common but differentiated responsibilities”, poneva vincoli rigorosi in capo alle economie più evolute (considerate la prima causa del surriscaldamento globale) e oneri più contenuti ai Paesi in Via di Sviluppo; era stabilito inoltre un “Meccanismo dello sviluppo pulito”, che di fatto rendeva l’inquinamento un bene commerciabile tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Nel dettaglio, 37 Paesi industrializzati e la Comunità Europea assumevano l’impegno di ridurre le emissioni di “gas serra” del 5%, rispetto al 1990 entro il 2012; all’indomani del Doha Amendment del 2012, l’impegno assunse una maggiore entità (principio di progressività) e l’obiettivo divenne quello di una riduzione del 18% da conseguire dal 2013 al 2020. Ciononostante questa fase è ritenuta fallimentare: se alcuni Paesi infatti hanno portato a termini gli obiettivi prestabiliti, altri o sono usciti dal Protocollo o non hanno dato attuazione ai propri impegni. Gli Stati dovevano realizzare gli obiettivi fissati soprattutto sulla base di misure nazionali e, in modo compensativo, ricorrendo ad altri mezzi a disposizione:

* International Emissions Trading;

* Clean Development Mechanism (CDM);

* Joint implementation (JI).

Il Protocollo di Kyoto si caratterizza indiscutibilmente per numerosi punti di forza: anzitutto garantisce un certo margine di discrezionalità agli Stati, i quali possono perseguire i propri obiettivi in maniera differenziata; gli impegni assunti poi non risultano eccessivi, mantenendo quindi una certa credibilità. In aggiunta, la possibilità conferita ad alcuni Stati di partecipare all’accordo pur senza l’obbligo di assumersi dati oneri, ha consentito un’ampia adesione al documento, anche di coloro che altrimenti non avrebbero deciso di sottoscriverlo.

Eppure il Protocollo non è riuscito a raggiungere adeguatamente i risultati sperati: dato che l’attivazione del sistema di enforcement era subordinata alla condizione di essere in regola con gli obiettivi fissati, di fatto la sua efficacia è piuttosto blanda in quanto aggiunge una difficoltà a quegli Stati che già hanno problemi a raggiungere gli standard. Risulta evidente quindi come il conseguimento degli obiettivi di Kyoto non sia stato agevolato, anzi, tanto da generare ripercussioni negative anche in termini di membership. In più l’orizzonte temporale di esecuzione del Protocollo era molto ristretto: gli obblighi cogenti arrivavano appena fino al 2012, per poi necessitare di un’ulteriore negoziazione. La conclusione è stata che nel 2012 la gran parte dei Paesi non ha centrato gli obiettivi e molti di essi hanno deciso di tirarsi via dal Protocollo. Da sottolineare poi come per permettere a Stati come la Cina e il Sudafrica (grandi inquinatori ma ancora in via di sviluppo) di rimanere nel trattato, è stata data loro la di continuare a inquinare, con la conseguenza che l’impatto generale del Protocollo sull’ambiente non è stato notevole. D’altronde, i principali inquinatori del mondo (Usa, Canada, Giappone, Russia) non hanno ratificato l’accordo, cosicché l’utilità del medesimo risulta quasi pari a zero.

Fondamentalmente il motivo essenziale per cui il Protocollo non ha sortito gli effetti sperati è stata la crisi economica che ha colpito indistintamente tutti gli Stati tra il 2007 e il 2008, stimolandoli a venir meno ai propri obblighi in materia di tutela ambientale. Per questo motivo, durante la COP 21 di Parigi del 2015, si è tentata una strada diversa, che potesse risolvere le carenze e i difetti del precedente regime.

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