Lo scorso 18 aprile, la Direzione investigativa antimafia di Trapani ha posto sotto inchiesta dieci persone nell’ambito di un’ipotesi corruttiva riguardante il settore eolico. L’indagato eccellente è senz’altro Armando Siri, esponente della Lega e sottosegretario ai Trasporti dell’attuale Governo. Il Siri indagato rappresenta l’ennesima delle recenti spaccature all’interno del duumvirato Salvini-Di Maio, nemmeno stavolta scevro di botte e risposta.
Il procedimento che vede il nome di Siri figurante nelle proprie carte d’accusa è collegato alla figura di Vito Nicastri, che anni fa il Financial Times definì come il “signore del vento” per la propria longa manu sul redditizio settore dell’eolico in Italia. Nel marzo 2018, Nicastri è stato arrestato per aver protetto il grande capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, del quale si ritiene sia prestanome e socio occulto.
La situazione di Nicastri si complica ulteriormente alla luce della presente indagine: secondo l’antimafia, Siri avrebbe partecipato a un processo corruttivo per inserire nel Def, il Documento di economia e finanza del presente Governo, una norma volta a favorire l’erogazione di contributi per le imprese operanti nel settore delle energie rinnovabili. Norma infine mai approvata nel documento finale. Il pm De Leo ha chiesto per Nicastri la pena di 12 anni di carcere, mentre il ruolo nella vicenda di Siri – nonché del deputato di Forza Italia Paolo Arata – è ancora da valutare.
E mentre la giustizia fa il suo corso, come si accennava, non mancano le polemiche all’interno di un governo sempre più diviso – come anche testimoniato, con una certa ironia, dal reciproco “unfollow” sui social network tra Salvini e Di Maio. È proprio il ministro per lo Sviluppo Economico a tuonare: Siri deve dimettersi. Il collega agli Interni controbatte con piena fiducia nel suo sottosegretario, contro il giustizialismo e citando l’esempio pentastellato di Virginia Raggi, già sotto accusa da parte dei pm e mai dimessa.
Certo, il Movimento Cinque Stelle non ha una storia coerente tra dimissioni proprie e richieste di dimissioni altrui, e resta incoerente – come la voce rabbiosa che rappresenta – sotto molti altri aspetti. È pur vero, però, che in tutto il mondo democratico occidentale rimanga buona creanza dimettersi a indagine in corso: il ruolo di Siri non è talmente importante da pregiudicare l’azione di governo qualora egli venisse meno ad esso. Non è una battaglia politica da “portare avanti” contro un oppositore che manovra marionette nell’ombra. Siri dovrebbe dimettersi per il bene del proprio partito e dell’esecutivo che rappresenta. E sì, anche Virginia Raggi avrebbe probabilmente dovuto fare lo stesso.