Dylan, Scorsese e l’uomo mascherato

Netflix è uno strano contenitore. Ci si trova l’ennesima serie adolescenziale, ogni sorta di thriller di varia fattura e qualità, commedie tendenzialmente deludenti, cartoni animati deliranti e, ogni tanto, capolavori assoluti. È il caso di “Rolling Thunder Revenue: a Bob Dylan story”, molto più che un documentario, firmato dal maestro Martin Scorsese, da sempre appassionato cultore della materia “Dylan” (si ricordi il monumentale documentario “No direction home” del 2005, o l’epico film-concerto “L’ultimo valzer”, del 1978). Trattasi di capolavoro precisamente per il suo essere molto più di un documentario, o si direbbe “molto meno”. Infatti l’intento di documentare fedelmente quello strano e folle viaggio che è stata la Rolling Thunder Revenue (il tour del ’75-’76 in cui Dylan e una banda sgangherata di musicisti e poeti vagabondarono per l’America) cede il passo a una volontà meno cronachistica e più artistica. Del resto Scorsese lo aveva già fatto un documentario su Dylan. Certo, la sua inesauribile e maniacale passione per i materiali di archivio, per la ricerca di dettagli, particolari, chicche da riscoprire, sembra guidarlo ancora, eppure stavolta lo ha spinto un po’ più in là. L’appassionato cronachista, il certosino scolastico che compendiava e al limite evidenziava le opere dei suoi autori, non ha resistito. Ora è stato trascinato anche lui nell’opera che indagava, è stato contagiato da quello spirito, invasato da quel vento. Come è successo?

Scorsese nasce appassionato spettatore, lettore e uditore di maestri indiscussi, da Meliès a Kurosawa e a Fellini, dal Vangelo a Shusaku Endo, dai Mascagni ai Rolling Stones e a Dylan e The Band, per citarne solo alcuni. Si può leggere la sua intera opera come una serie di omaggi al cinema e alle arti figurative, alla letteratura, alla musica: ha sempre usato tanti modi diversi di rappresentare l’uomo, il suo dramma e i suo mistero, partendo spesso da altre rappresentazioni, riflettendole in un gioco di specchi.

Con Bob Dylan vi è stato ora un passaggio ulteriore: i due punti di vista (Dylan e Scorsese) oltre che rispecchiarsi si sono riconosciuti e intrecciati, confusi, o meglio, sono entrati in risonanza. Nel non-documentario si vedono per lo più immagini di repertorio, fedeli testimonianze della potentissima forza evocativa del Dylan degli anni ’70, ma il modo in cui sono assemblate le immagini, le aggiunte, i ricami sulla storia vera, o le vere e proprie frottole (raccontate in interviste “recitate” da Sharon Stone, da un finto produttore del tour e da un finto regista di un fantomatico documentario, e così via…), sono frutto di una contaminazione reciproca dei due maestri dell’illusione. È come se insieme raccontassero la stessa storia, o meglio, lo stesso mistero. Il mistero della verità.

Nei primi minuti di intervista (orchestrata con l’amico intervistatore, e chi sa chi abbia effettivamente pensato questa frase) Dylan afferma: “se chi ti sta parlando indossa una maschera, allora sta dicendo la verità. Se non ha una maschera, allora è improbabile che sia sincero”. Nessuna verità senza una finzione, il senso delle cose è nascosto fra le righe, qui sta il punto sui cui entrambi gli illusionisti sono d’accordo. Sì, i due illusionisti, come Meliès, padre nobile del cinema, che nel finale saluta il pubblico indossando una maschera. Ma chi è veramente l’uomo mascherato? È Meliès, e dunque ciò che rappresenta, il cinema e l’arte in generale, Scorsese stesso? È forse l’intero film, che si spaccia per documentario senza averne diritto? È Dylan nel suo tour, con la sua maschera bianca da commedia dell’arte italiana? Tutti insieme, nessuno definitivamente. Il mistero resta insoluto, la maschera resta un enigma, e quella di Dylan in particolare rimane una maschera ambigua, tanto da confondere sulle sue stesse origini e sul suo significato (nella finta intervista Dylan vaneggia di un’ispirazione presa dai Kiss…!). Questo perché la maschera per sua natura confonde e nasconde, ma al tempo stesso è l’unico modo per essere persona: persona in latino significa volto, ma anche maschera, parte dell’attore. E Dylan è un attore, il migliore che Scorsese abbia mai visto, che ha indossato infinite maschere per dire sempre e solo la verità, quella che nel ’76 cercava scrutando con i suoi occhi verdissimi l’oscurità, che annuncia ammonendo che una Hard rain it’s gonna fall, che urla con tremenda crudeltà in Hurricane, che nasconde e ri-vela raccontando la propria leggenda.

I due illusionisti diventano allora profeti e sciamani della verità: la evocano, la aspettano, la cercano incessantemente, maschera dopo maschera, metafora dopo metafora, intrecciando i racconti, confondendo le carte, recitando poesie, raccontando storie, o forse solo leggende.

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