Dopo l’estiva presa di posizione rispetto ai due ministri che lo tenevano in ostaggio, un ulteriore indizio di indipendenza da parte di Giuseppe Conte non si è fatto attendere: «Definirmi cinquestelle è inappropriato», ha affermato il Presidente del Consiglio incaricato, che ora attende il voto su Rousseau per sciogliere la riserva, probabilmente entro metà della settimana ventura.
Voto, quello sulla piattaforma pentastellata, che parrebbe un salto nel buio ma non sembra costituire particolare preoccupazione. È vero: l’orientamento della base elettorale dei Cinque Stelle sembra essere prevalentemente ostile alla formazione del governo “giallorosso”, come è stato definito, ma il partito stesso è di tutt’altro avviso. Quanto fidarsi di Rousseau, interamente gestita da un’azienda privata e i cui metodi di voto non sono mai sembrati sicuri né trasparenti?
Tutt’al più, un voto negativo su Rousseau potrebbe servire quando il partito di proprietà Casaleggio Associati necessita di “smarcarsi” da una linea politica che non può, ufficialmente, abbandonare di propria sponte senza deludere i propri elettori. Solo pochi mesi fa, questo sarebbe parso il caso: oggi sembra non esserlo, mentre il PD e il M5S discutono in maniera concreta dei come e dei perché di un esecutivo realmente inedito.
Il nodo da sciogliere, dopo l’“ok” dem a un Conte bis, è quello dei vicepremier – figura in realtà non intrinsecamente consona all’ordinamento italiano, ma utile a definire un determinato peso di chi la ricopre. Al tavolo delle discussioni, i due partiti si litigano tale peso e il relativo potere, non tanto nell’azione di governo stessa ma nella firma che porterebbe; è però essenziale non giungere a un vicolo cieco che faccia saltare le trattative. I grillini, forti della posizione di primo partito, desiderano che Luigi Di Maio continui a rivestire un simile ruolo; i democratici, non troppo convinti, provano a trattare.
Nicola Zingaretti cerca oggi un’altra soluzione, ossia quella di eliminare il ruolo di vicepremier tout-court. Sul piano istituzionale e pratico cambierebbe ben poco; su quello mediatico ed elettorale, è possibile che i 5S non si trovino d’accordo.
E al di fuori della stanza delle discussioni? Il governo giallorosso, ben prima di nascere, è già circondato da nemici: in primis la già preventivata destra, che si riunirà ora in un blocco unico con il padano figliol prodigo a tornare con Berlusconi e Meloni, dopo aver pagato per i propri madornali errori. Ma, anche all’interno dei due partiti che si apprestano a costituire la nuova maggioranza, non è tutto rose e fiori. Calenda, già non troppo convinto della direzione dem – e, in generale, di una linea troppo di “sinistra” – ha già dato l’addio ai compagni di partito.
I 5S, come di consueto, si muovono in blocco rispettando le linee guida aziendali: tanto che già, come spesso è accaduto, c’è chi rimprovera a Di Maio incoerenza andando a rinvenire i vecchi tweet in cui negava nel modo più assoluto un accordo col Pd, allora e sempre. L’opinione della massa elettorale pentastellata, però, è un altro paio di maniche che prescinde dagli “ordini dall’alto”.
Il governo, probabilmente, si farà: attenzione però ai franchi tiratori, ai fuoriusciti e alla base elettorale. Il Conte bis dovrà vincere e convincere da subito, al netto delle sfide finanziarie che lo attendono dietro l’angolo, se vuole sopravvivere fino a Natale e non consegnarsi da solo in pasto ai suoi nemici, che attendono attenti e affamati il loro momento.