Articolo 4: perché si deve lavorare? Cosa significa?

Proseguendo la nostra rubrica «articolo per articolo» in cui ripercorriamo i primi capitali 12 articoli della nostra Costituzione, siamo arrivati al cruciale quarto articolo: il diritto e il dovere al lavoro. Lungi dall’affrontare le annose e gigantesche questioni di politica economica e filosofia politica sottese alle diverse interpretazioni di questo diritto-dovere che la Repubblica italiana «riconosce» e «promuove» per tutti, ci si potrebbe chiedere come oggi sia sentito comunemente. Cosa parliamo quando parliamo di lavoro?

Sicuramente qualcosa è cambiato. Innanzitutto il rapporto con la «fatica», appunto con il labor, lo sforzo di energie richiesto a portare a termine un’opera, materiale o spirituale che sia. Il sacrificio di oggi è ancora un investimento per il miglioramento di domani? O si prova semplicemente a sopravvivere alla precarietà? Una certa retorica piuttosto diffusa sostiene che negli ultimi trenta o quaranta anni la società si sia corrotta moralmente e antropologicamente, e che dunque per una strana maledizione le ultime generazioni crescono più pigre e disoneste, o sono vittime delle penultime generazioni, pigre e disoneste, in una sorta di conflitto generazionale. Ma al di là della questione su quale generazione abbia la «colpa» dello stato attuale del lavoro in Italia, questa visione non sembra convincente, non solo perché sterile, ma perché incompleta.

Il punto non è di chi sia la colpa, ma quale sia nel profondo il processo che ha messo in questione il diritto-dovere al lavoro. Solo inserendosi in questo processo vivo di interpretazioni e traduzioni del senso del lavoro si può sperare di farlo evolvere verso un qualche miglioramento sostanziale, mettendo a fuoco il nuovo valore che il lavoro assumerà in un contesto ormai radicalmente diverso da quello dei nostri nonni, essendo ormai lontani dalla società della famiglia, della casa e dello Stato sociale. Nella situazione attuale, con un disoccupato ogni nove lavoratori e con l’esodo silenzioso di 250 mila giovani negli ultimi dieci anni, il problema non è come mantenere stabile un sistema, ma come trasformarlo per il futuro. Il diritto e il dovere a dare il proprio contributo al «progresso materiale o spirituale della società» potrà essere salvato non attraverso una difesa o un ritorno al passato, ma soltanto ripensando e rilanciando coraggiosamente l’orizzonte del lavoro nella sua essenza autentica di concreta relazione sociale. È questo il cuore del significato della sostenibilità sociale e ambientale: sperare nel futuro e costruirlo a partire dal vivo rapporto fra gli uomini e dal loro posto nel mondo.

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