Un uomo dal nome fin troppo comune, tanto che potrebbe essere il nome di qualsiasi italiano tipico, un fisico apparentemente tutt’altro che atletico, le spalle quasi curve, di piccola statura, mingherlino.
Totalmente antitetico rispetto agli stereotipi attuali del calciatore.
Eppure la natura l’aveva dotato di alcune caratteristiche importanti che probabilmente determinarono la sua carriera: forza di volontà e tanta disciplina.
Paolo Rossi diventerà la prova vivente che, per chi realmente sa mantenere il focus sui propri obiettivi, non esistono imprese impossibili.
Era il luglio del 1982: l’Italia arriva tra mille difficoltà ai mondiali di Spagna. Succede un miracolo nella partita contro l’Argentina, campione del mondo uscente, che viene battuta dalla nostra squadra.
Ciò fu determinante per trovare l’entusiasmo e una preziosa
concentrazione per affrontare quella partita che poi segnò lo spartiacque: l’Italia scende in campo contro il Brasile e inaspettatamente vince tre a due. A segnare i tre goal è Paolo Rossi che diventa un eroe nazionale: tre goal che sembrarono tre saette e che segnarono la sconfitta di un Brasile che sembrava allora costituito davvero da semi-dei del calcio.
La rapidità improvvisa delle sue giocate era l’arma segreta di questo agile giocatore: la sua presenza nell’aria di rigore non la si percepiva fino a quando, all’improvviso, prendeva la palla e il tempo pareva collassare un istante, davvero appena il tempo di veder entrare in porta il gol.
“Rubava il tempo agli avversari” è stato detto.
Sembrava davvero un ragazzino e così è rimasto cristallizzato nella nostra memoria, tanto che l’altra mattina la notizia della sua morte ci ha sorpreso ed ammutoliti. Mi rendo infatti conto che, nonostante il nostro Pablito, così come lo chiamarono anche dopo la sua impresa ai mondiali, abbia continuato fin di recente ad avere una buona visibilità in televisione come opinionista per varie emittenti italiane, nonostante si sia speso nel sociale dopo il suo ritiro dagli stadi, nonostante abbia anche scritto dei libri con sua moglie Federica Cappelletti, giornalista e scrittrice, la maggior parte degli italiani ha mantenuto cara nella mente la sua immagine giovanile dell’82.
Rimarrà così per noi come una figura bella e gentile di calciatore italiano e di uno sportivo che, pur avendo avuto delle grandi doti professionali ed pur avendoci regalato momenti di gioia e serenità, non è mai diventato un personaggio egocentrico, non parlando mai di sé come campione.
Come racconta lui stesso nel suo libro “Quanto dura un attimo”, è stato un uomo che ha sfidato la sorte realizzando il suo sogno da bambino: l’unico giocatore che ha messo in ginocchio il Brasile con i suoi tre goal, il giocatore che ha ricevuto il Pallone d’Oro, capocannoniere ai mondiali in Spagna, Scarpa d’Oro nell’82 e Scarpa d’Argento nel 78, infine Collare d’Oro (massima onorificenza per uno sportivo). Eppure ha anche dovuto attraversare momenti durissimi e nefasti, come quelli dello scandalo del calcio scommesse che gli costò una squalifica che gli fece perdere l’europeo del 1980 in Italia. Fu costretto a due anni di fermo in cui a Paolino è sembrato gli avessero tolto due anni di vita, è stato un momento in cui aveva pensato addirittura di lasciare per sempre l’Italia. Neanche questo duro colpo però è riuscito ad uccidere il suo sogno, anzi, chissà, probabilmente lo ha reso ancor più determinato a raggiungerlo.
Così rientra alla Juve nel 1982 e nello stesso anno vince il mondiale.
Dirà, felice sotto un tabellone, dopo il fischio finale della finalissima contro la Germania, guardando la folla entusiasta: “Fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti”.
Ecco Paolo, oggi vorremmo pensarti così, a guardare il cielo, con un pallone tra i piedi, felice e finalmente consapevole che ora lo sarai per sempre.