La grande fortuna del mito di Odisseo nasce all’interno dell’ottavo cerchio infernale, nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, dove Dante incontra l’eroe e, dandogli voce, scolpisce l’eterna immagine di quest’anima indomita, insofferente ai limiti umani, desiderosa di essere metafora dell’esistenza (Inferno XXVI). Preziosa e diffusa risorsa all’interno della letteratura di ogni tempo, tale immagine attraversa i secoli e giunge in svariate forme fino ai più grandi nomi del Novecento; oggi ricordiamo Cesare Pavese, di cui l’anno scorso si è celebrato il settantesimo anniversario della sua morte, avvenuta nell’afosa nottata torinese del 27 agosto 1950. Pavese riprende il mito di Odisseo in due occasioni: nella poesia Ulisse, tratta da Lavorare Stanca, e in uno dei Dialoghi con Leucò. Questi brevissimi racconti strutturati in forma dialogica, scritti dal dicembre del 1945 al marzo 1947, mettono in luce l’importanza della riscoperta del mito, imprescindibile sostrato culturale che abita la nostra società e di cui dobbiamo proteggerne la memoria. In questo dialogo, L’isola, i protagonisti, Odisseo e Calipso, riflettono sul tema dell’immortalità, che non dona la felicità, in quanto questa risiede nella vita che va vissuta a pieno: non bisogna temere la morte, che fa parte della stessa vita, ma il non vivere, che si materializza nel restare fermi su un’isola in cui il tempo si cristallizza in un’infinita e statica successione di istanti.
CALIPSO: Non vale la pena, Odisseo. Chi non si ferma adesso, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre. Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo…
ODISSEO: Non sono immortale.
CALIPSO: Lo sarai se mi ascolti. Che cos’è la vita eterna se non questo accettare l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?
ODISSEO: Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.
CALIPSO: Dimmi.
ODISSEO: Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.