Al ritorno da Creta mi è capitato sotto mano un saggio di didattica nel quale si sostiene, grosso modo, che la didattica sarebbe riconducibile a un complesso reticolare di elementi razionali. Non si discute né si vuol mettere in dubbio che essa sia anche questo, ma è probabilmente anche altro, altro non sempre riconducibile a elementi razionali. Si dimentica che l’insegnamento-apprendimento è anche spontaneità nel senso migliore, affettività, personalità interagente in situazioni specifiche, spesso, ma non sempre, irripetibili, qui ed ora, attività artigianale, o, se si preferisce, con espressione poetica e non a caso adopero questa espressione, è anche (o soprattutto?) carne e sangue, è manifestazione unica ed irripetibile della umanità, della cultura trasmessa e agita e interpretata dal docente per il discente a sua volta interagente e retroagente con la sua umanità in formazione.
Anche se forse può sembrare ovvio quello che sto scrivendo, mi sto dilungando su questo problema, perché sono del parere, anche per l’esperienza accumulata in giro per l’Europa e per altri continenti, che la cosiddetta comunità educante, formata dall’attuale società europea, e non pochi approcci didattici presenti e operanti nelle nostre scuole, abbiano sviluppato i loro valori in direzioni iper-razionalistiche e, direi, quasi meccanicistiche.
In parole povere, assistiamo a un eccesso di razionalismo in campo educativo e didattico, causato da una cieca e acritica fede nel Dio del progresso e nel Suo profeta, la tecnologia. A scanso di equivoci, non siamo certo sostenitori di posizioni anti-razionalistiche e anti-modernistiche, ma ci pare necessario che proprio la società educante europea ed italiana trovi lo spazio e il tempo per rimeditare la propria filosofia educativa ed i propri obiettivi, alla ricerca di quello che oggi molti scienziati amano chiamare e definire “Sviluppo compatibile”, laddove per sviluppo compatibile si intende innanzitutto necessità primaria e strategica di una educazione volta al recupero di quel senso dell’equilibrio bruscamente e pericolosamente incrinato in Europa e nel mondo tra uomo e ambiente.
Abbiamo inculcato nei giovani e negli adolescenti, soprattutto nel passato più recente, la convinzione dell’onnipotenza della scienza e della tecnologia. L’arroganza dello strapotere dell’uomo sulla natura non solo ha gravemente incrinato e indebolito la dimensione auto-regolativa dell’ecosistema in cui anche l’uomo è inserito e integrato, ma ha anche plagiato non poche generazioni studentesche e non, fideisticamente convinte del valore etico della illimitatezza dello sviluppo economico basato sull’aggressione umana all’ambiente. L’attuale crisi economica e politica italiana, ma in parte anche europea, sembra che stia finalmente disvelando e mettendo a nudo tutti gli inganni, le bugie e l’illusorietà di questa vera e propria ideologia della rapina, rapina del territorio, dell’ecosistema e dell’intelligenza umana.
Nel campo educativo un certo “americanismo” didattico, senza per questo voler sminuire i brillanti apporti del mondo americano alla pedagogia e alla didattica, si è sottilmente insinuato negli anni trascorsi anche nella nostra scuola. Per un certo periodo della nostra storia scolastica repubblicana, in parte siamo stati succubi di impianti didattici fortemente e piattamente analitici: basti citare l’esempio della didattica della storia, dove ancora oggi alcuni manuali continuano a scodellare una specie di “macchinismo” super-razionalistico, livellatore e autoincensatorio (nel senso di una estenuata ed estenuante esaltazione delle idee forti e falsamente totalizzanti dell’Occidente): così la ragione storica dell’Occidente finisce col comprimere, reprimere e dimenticare “le diversità”, “le differenze”, le forti identità nazionali dell’Est europeo e i vari fondamentalismi religiosi a loro volta risalenti ad altre civiltà “diverse” dimenticate, Bisanzio e l’Islam.
Qualcuno dirà che dimentico il ’68 e la sua contestazione globale, ma non è così, non l’ho dimenticato, anzi. Ma la logica contestatrice di quei ragazzi si serviva di strumenti critici provenienti dallo stesso sistema che criticava. E in parte lo stesso fenomeno deviante delle folli e violente notti del sabato sera in discoteca all’insegna della logica super razionalistica, o, peggio ancora, della febbre del sabato sera va considerato come una reazione esasperata e inconscia, falsa percezione di una via di scampo e di sfogo. La scuola, ammalata in parte anch’essa di esasperato razionalismo, ha probabilmente qualche responsabilità in tutta questa drammatica “faccenda”.
Di recente sembra che la cosiddetta educazione interculturale, alla pace, alla diversità, alla mondialità si sia presa la responsabilità schiacciante e sovrumana di fornire, ci si augura e si spera, nuove argomentazioni e stimoli più che risposte agli adolescenti e ai giovani. Bisognerà vedere quali strade essa prenderà e percorrerà. Più modestamente chi scrive vorrebbe, al ritorno da Creta, presentare qualche suo piccolo contributo al dibattito in corso, traendo spunto proprio da un relativo, recente viaggio in questa grande isola del Mediterraneo. Presento queste note di viaggio come le presenterei in una classe di un biennio superiore.
Dopo circa dieci anni improvvisamente riscopro la voglia di Grecia. Come mai? E’ difficile dare una risposta, ammesso che da qualche parte esista. Molte volte certe nostre scelte sono dettate da profonde e apparentemente oscure motivazioni che pulsano dentro la nostra coscienza. Forse la comunanza mediterranea di Greci ed Italiani, forse la paura dei fuochi di rivolta sparsi un po’ in tutto il bacino del Mediterraneo, forse l’improvvisa apparizione di alcune ragazze ateniesi conosciute a Milano e la facilità di approccio e di comunicazione nei loro confronti, forse il miraggio di una vacanza esotica, ma non tanto, alla ricerca di se stessi, immergendosi e specchiandosi in contrasto e in controluce dentro l’apparente diversità degli altri, o forse semplicemente perché non ne potevo più dello stress e delle pressioni psicologiche a cui sono sottoposto, forse il mio innato e spiccato amore di uomo libero del Sud mediterraneo per la bellezza del nostro mare, fatto sta che un bel giorno di maggio mi precipitai alla più vicina agenzia di viaggi per prenotare quindici giorni di vacanze in agosto a Creta. Così mi venne in mente che un mio carissimo amico d’infanzia non ne poteva più della civiltà e dei suoi guai e mi aveva pregato di associarlo a qualunque spedizione vacanziera che il sottoscritto avesse deciso di organizzare ed effettuare. Avrebbe preso tutto a scatola chiusa, senza discutere.
Non persi tempo, gli telefonai. Non ebbe alcuna difficoltà ad accettare la mia proposta. Quello che importava era la fuga dalla cappa opprimente e insopportabile del Bel Paese anche se solo per quindici giorni: si sarebbero trasformati nelle nostre magiche mani in quindici mesi, anzi no, in quindici anni. I miracoli, oggi come sempre, si compiono con la volontà e la fede, non con la bacchetta magica.
Solo un imprevisto mi aveva distolto in precedenza dall’idea di andare in vacanza in Siria, sempre nel mio Mediterraneo. Lo so che sembrerà una follia, ma volevo rendermi conto di persona di come si vive sotto una dittatura araba nazionalista con il dittatore in agonia, attorniato dai tanti papabili successori che si scannano tra loro per assicurarsi la successione al “trono” di sangue. Ma c’era anche un altro motivo che mi spingeva verso la Siria: la stampa internazionale dava per sicura e scontata la presenza del mitico e famigerato “Carlos”, il terrorista più ricercato del mondo. Follie le mie, me ne rendo conto, ma avevo voglia di vedere, o, meglio, di intravedere come era un Paese mediterraneo che ospitava due “zombie”, due reperti archeologici unici di un’altra epoca, di un altro mondo, come lo erano il dittatore e il suo protetto “Carlos”. Se vuoi conoscere l’uomo, devi andarlo a incontrare nei luoghi in cui soffre. Non lo dissi al mio amico, non l’ho mai messo a parte delle mie intenzioni pazzesche.
Comunque giunge il giorno della partenza, il 4 agosto di un anno che non ricordo più. Ci aggiriamo io e il mio amico, in attesa della partenza per Iraclion a Creta, per l’aeroporto di Napoli Capodichino. La prima sensazione nel recinto di Capodichino è un senso di estraneità all’ambiente che ci circonda. Sarà colpa nostra? Ho dei dubbi. Molti dei viaggiatori in attesa, come noi, sono preda dell’isteria collettiva del Terzo Millennio, la musica urlata: non ci vedono e non ci sentono neanche. Siamo invisibili, siamo assenti. Ma io e il mio amico non ce la prendiamo più di tanto. Qualche vaccinazione anti-massificante l’abbiamo fatta e ormai siamo abbastanza corazzati, anche se comunque non fa piacere accorgersi di essere soli nella folla, o, meglio, essere ignorati nella tua comunità di appartenenza. Ma così va il mondo, anzi “questo” mondo e, come dicono in marina, avanti tutta verso Creta.
Comunque all’imbarco avverto il mio amico su alcune voci di scioperi negli scali greci e di attentati terroristici promessi ai Greci e minacciati da alcune organizzazioni clandestine turche. Tant’è che io penso e dico ad alta voce: “ci risiamo con le vecchie storie di odio viscerale tra questi due popoli”.
Non è il caso di spaventarsi, dico al mio amico, perché ormai quasi tutto il Mediterraneo è in fiamme. Insomma una volta che si è deciso di partire, non vale più la pena di pensarci, si accetta il rischio. Ho i miei dubbi che i nostri “disperati” compatrioti, allucinati dalla “droga pesante” della musica dai pugni allo stomaco, ne sappiano qualcosa.
Mi viene quasi la voglia di informarli per vedere se almeno così riesco a distoglierli e a disintossicarli almeno per qualche minuto. Ma poi decido che è meglio lasciar perdere: ognuno per la sua strada e che Dio ce la mandi buona. Finalmente ci imbarchiamo. Non abbiamo neanche il tempo di renderci conto che siamo in volo, che già siamo arrivati a Creta. Speriamo bene.
Pare comunque che siamo in ritardo, perché di fretta e furia un taxi dell’agenzia di viaggi ci porta di notte lungo il tormentato percorso alla nostra destinazione prevista.
Comincio a parlare in inglese col conducente. E’ un Greco dalla cima dei capelli alla punta dei piedi. A ogni domanda che gli pongo, risponde sempre facendo emergere il suo amore per la Grecia. Questo amore dei Greci per la Grecia è qualcosa da me già riscontrato in altri precedenti viaggi nella terra di Socrate e comunque al momento non approfondisco perché sono troppo stanco anch’io, mentre il mio amico già dorme “saporitamente”. Mi congratulo con me stesso, voi direte: ecco la presunzione che prorompe irrefrenabile, perché non ho perso il senso della comunicazione immediata col mio prossimo anche e soprattutto “straniero”. Ma forse sbaglio, perché quale “estraneità” ci può essere tra due persone che immediatamente e beatamente conversano tra loro come se si conoscessero da sempre?
Finalmente arriviamo all’albergo, nella notte non ci sembra gran che, ma preferiamo subito andare a dormire. Danno a me e al mio inseparabile amico due camere singole, l’una di fronte all’altra. Ci salutiamo, dandoci reciprocamente la buona notte. L’indomani ci svegliamo piuttosto tardi. Ma che importa, siamo in vacanza e dobbiamo recuperare perché ci aspetta Creta con tutto il suo fascino e i suoi misteri che speriamo di svelare al più presto. Scendiamo giù nella hall dell’albergo. Così scopriamo che l’hotel è la fine del mondo, è il Paradiso in terra dei nostri sogni: mare stupendo, piscine, parco, tennis, ecc ecc, il tutto inserito in un paesaggio da mille e una notte, fiabesco. L’hotel è a forma di un’immensa tenda araba piantata tra cielo , mare e terra. Dopo questa scoperta, io e il mio amico ci dedichiamo per un paio di giorni al mare. In questo modo cerchiamo prima di ambientarci alla nuova realtà e al clima pesantemente caldo anche se secco e ventilato.
Subito dopo ci organizziamo per predisporre delle spedizioni all’interno e in lungo e largo per l’isola da me, come da molti, decantata come una meraviglia. Ma il mio amico, che è medico e non è mai stato in Grecia e tanto meno a Creta, insiste nel voler dedicarsi al turismo archeologico. Ci tiene, al contrario di me che già l’ho visitata l’isola e ho altre idee per la testa, a visitare gli scavi archeologici di Cnosso e della civiltà Minoica. Si ricorda ancora di Minosse, il labirinto, Teseo, il filo di Arianna, ecc ecc, l’antica scuola, il liceo, ritorna alla luce della coscienza e del sole. Ma io ho altri progetti. Io voglio conoscere l’altra Creta, quella dell’uomo mediterraneo di ieri e di oggi e del suo ambiente quasi immutabile. E come un antropologo, vado alla ricerca del mio uomo nel suo, ma anche nostro ambiente. E allora per convincere il mio amico, ricorro a una scommessa: se nel primo giorno di avventura non rimarrà soddisfatto, ci dedicheremo alla puntuale esecuzione delle sue proposte turistico-archeologiche. Il mio amico accetta la scommessa. Non perdiamo altro tempo. Andiamo a prenotare un mezzo di trasporto che faccia al caso nostro: una “Panda”. Io comincio la trattativa con l’agente che noleggia le auto. La concludo rapidamente. L’auto è nostra, si parte. La meta: Elafonissi. (Anche se a distanza di anni mi viene il dubbio che potrebbe non essere Elafonissi).
Voi direte, ma che cos’è Elafonissi? Presto detto, la spiaggia più bella di Creta e, dopo averla vista, ritengo che sia uno dei posti più incantati e incantevoli del mondo. Comincia il nostro raid, il nostro rally delle montagne e del mare. Mi sento tanto navigatore con tanto di mappa e strade da segnalare e imboccare abilmente senza perderci nei meandri dell’isola. Ovviamente il mio amico si sente tanto pilota e veramente lo è perché sa guidare magnificamente la Panda. Sarà la nostra avventura una Parigi-Dakar, un Camel Trophy? Ai posteri l’ardua sentenza.
All’inizio la strada scorre veloce e piacevole. Il paesaggio della costa e del mare cretese rapisce i nostri occhi e i nostri cuori. Andiamo in estasi: qui veramente puoi immaginare a occhi aperti cosa è stato ed è il mare per i Greci. Ai tempi di Omero, come oggi, questo mare è vita e poesia, è amore e commozione.
Quando poi cominciamo ad inerpicarci per le montagne, dopo aver lasciato La Canea, la città veneziana addormentata e dimenticata alla fine del mondo, entriamo in un territorio dove a cipressi, pini ed olivi, si alternano larghi spazi vuoti, desertici. Ogni tanto compare un villaggio minuscolo immerso in un’oasi di verde, appollaiato poco lontano dalle cime di montagne maestose e selvagge. A un certo punto, mentre proseguiamo il nostro viaggio, scorgo un vecchio contadino col suo asino e come se lo avessi conosciuto da sempre, gli chiedo un po’ in greco e un po’ in inglese se la strada da noi intrapresa sia quella giusta per Elafonissi. I suoi modi gentili e cordiali sono ricambiati con altrettanta, se non maggiore cortesia e disponibilità. Le sue informazioni si rivelano preziose. Se volete la conferma che la incomunicabilità dell’uomo moderno è solo occidentale, dovete venire tra le montagne di Creta.
Maciniamo altri chilometri, la strada non è più asfaltata, diviene sterrata, più stretta e a strapiombo su un mare la cui bellezza è inenarrabile. Il mio amico, il pilota, comincia ad avere dei dubbi, anche perché la via diviene sempre più pericolosa. Se dovesse accadere qualcosa all’auto o dovessimo uscire fuori strada, correremmo il rischio di lasciarci le penne. Me ne rendo conto anch’io. Ma non demordo. Incito il pilota. Non voglio rinunciare ad Elafonissi. Gli faccio presente che la meta non è lontana e mollare adesso, dopo tanta strada e tante fatiche, sarebbe veramente da stupidi. E magari poi ce ne saremmo pentiti. Alla fine lo convinco. E il miracolo accade: “Mare, Mare”, io grido. E mi ritorna in mente un altro esploratore greco che qualche millennio fa, prima di me, in Asia aveva urlato queste magiche e taumaturgiche parole per incitare i suoi uomini.
E all’improvviso sotto di noi appare uno spettacolo eccezionale: una laguna blu con isole ed isolette coralline che colorano il mare e le spiaggie di rosa, sormontate da un cielo azzurro che si confonde col blu del mare.
Prima di raggiungere e conquistare il Paradiso, dobbiamo pagare una lunga penitenza: la strada per l’agognata meta è più lunga e perigliosa del previsto. Attraversiamo un territorio stepposo ed arido, più simile al tavolato piatto e sabbioso dell’Arabia Saudita che all’Europa. Già, ma qui, giù in fondo alla fine del mondo, incominciamo a intuire la complessa biodiversità di questa estrema Europa tanto varia quanto sconosciuta ed ancora avvolta nel mistero. Finalmente ce l’abbiamo fatta. Siamo in riva al mare. Stregati dallo spettacolo straripante della natura selvaggia e incontaminata, dimentichiamo tutto, la nostra “jeep”, i nostri abiti, la nostra civiltà. Sotto un cielo caldissimo, ma secco e mitigato da una brezza quasi polare a contrasto col calore del sole, ci immergiamo nell’acqua bassa, chiara e fresca. Tutto intorno isole e isolette solitarie e candide. Da un certo punto in poi le spiagge e le acque del mare diventano di rosa pallido: è il corallo che dà questo colore riflesso di una purezza e di un lindore eccezionali. Incontriamo altre persone, altri viaggiatori d’Occidente. Non li abbiamo mai visti in vita nostra. E pure tutti sulle labbra hanno un sorriso straripante di gioia, stupore e profonda commozione.
Non vorrei peccare di ottimismo antropologico, ma credo che il sottoscritto e il pilota e quegli uomini incontrati lì, giù in fondo all’anima dell’Europa, assomigliassero forse un po’ a quegli altri uomini del Neolitico, soddisfatti e contenti di un’altra giornata vista e vissuta a contatto con la insondabile profondità della natura incontaminata e incorrotta.
Ho letto anche di leggende secondo cui non pochi piccoli e dimenticati conquistadores fossero spariti nel nulla della foresta Amazzonica, probabilmente rapiti dalla bellezza metafisica dei luoghi che attraversavano. Non so se c’è qualcosa di metafisico nelle nostre avventure marittime ai confini estremi dell’Europa, ma una cosa è certa: credo che nessuno di noi due, cioè il sottoscritto e il mio amico, riuscirà più a dimenticare questo attimo fuggente di estrema felicità interiore ed esteriore.
Avrei voluto con noi in quei momenti uno dei tanti teorici dell’educazione interculturale: credo che sarebbero ben presto divenuti disoccupati e anch’essi indaffarati a vivere in un angolo di mondo appartato senza i vincoli ipocriti della nostra società costretta, attraverso la scuola, a rieducarsi alla “naturalità” dei rapporti umani. Ma qui entriamo nella filosofia, allora è meglio lasciar perdere e tornare alla nostra avventura. Erano anni che non vedevo uomini e donne così spensieratamente felici. Non ci eravamo mai visti prima d’ora e tutti eravamo tra noi gentili e affabili. Nazionalità, “razza”, patria, religione non creavano più barriere perché semplicemente non esistevano più.
La mia esposizione costante sotto il sole implacabile mi trasforma in breve tempo in um africano. Il mio cappello Hemingwayano mi difende solo la testa, di questo cimelio non riesco a liberarmi perché mi ha seguito in tutti i mari del mondo. Il mio amico ne ha uno identico di colore giallo: siamo quelli più in vista ad Elafonissi.
Il mio amico non vorrebbe andare più via, in verità neanche io, anche se il sottoscritto pure essendo, forse, più entusiasmato del mio amico, non lo lascia trasparire. E poi io dico che Creta ci riserverà tante altre sorprese e non voglio perderne neanche una. Prima di lasciare e salutare questo Eden, non posso fare a meno di pensare che qui varrebbe la pena di condurre gli alunni della scuola Italiana per mostrar loro da vicino come praticare e non solo teorizzare l’educazione ambientale.
Sulle montagne ci fermiamo in un minuscolo villaggio, uno di quei tanti microscopici villaggi cretesi arroccati sulle cime come tanti presepi. Al solito, non ho difficoltà a incrociare e comunicare con adolescenti e giovani di quest’isola. Sono a casa mia, anzi siamo a casa nostra. Contatto, saluto e discuto con tutti e i Greci con me senza difficoltà, anzi con estremo reciproco piacere. Il mio amico “non si fa capace” e subito dal nome dell’albergo in cui alloggiamo, mi affibbia l’affettuoso ed ironico appellativo di “El Greco”. Onestamente non è che mi dispiaccia, anzi per certi aspetti è un onore. Ma dove sono i teorici dell’educazione interculturale? Se mi vedessero in azione, sarebbero costretti ad ammettere che il sottoscritto non avrebbe bisogno di lezioni in questa neonata “disciplina”. Ma, come al solito col mio spirito ipercritico, come sostiene il mio amico pilota, io aggiungerei che l’educazione interculturale è insita dentro tutte le discipline di insegnamento-apprendimento, perché ogni disciplina agita da un docente è di per se stessa manifestazione di capacità comunicativa, stimolatrice di condizioni ed intenzioni umane di agibilità intellettuale ed esistenziale in interazione costante col soggetto d’apprendimento. Se ciò non accade, non si dà alcuna didattica, alcuna educazione, c’è solo l’attimo freddo di un obitorio o, nella migliore delle ipotesi, per dirla poeticamente, l’inverno del nostro scontento.
Dopo aver parcheggiato il nostro “Nautilus” di montagna, mi avvicino ad un anziano simpatico signore per chiedergli informazioni sulla via del ritorno. Non l’avessi mai fatto! Subito mi confida che lui va matto per gli Italiani, è stato in Italia per dei corsi di formazione, gli Italiani sono come i Greci e completa la sua esternazione con il solito e classico “una faccia, una razza”. Durante la seconda Guerra Mondiale, a giudizio dell’anziano greco, gli Italiani non sarebbero stati crudeli e violenti come i Tedeschi. Probabile o improbabile che fosse questa opinione, io la archivio mentalmente. E poi, sempre secondo l’anziano, i miei compatrioti non si comporterebbero in vacanza come i Tedeschi che si darebbero arie da padroni del mondo. Io rimango meravigliato, ma non dispiaciuto, se quanto mi racconta fosse vero. Almeno in questa occasione sembra che abbiamo saputo esportare una buona immagine della nostra comunità. Questa è una di quelle non numerose occasioni in cui mi sento orgoglioso di essere italiano. Su queste montagne, ad oltre 2000 metri di altezza, tra cielo e mare, lontano dalla mia terra, ho scoperto i tratti migliori della mia cultura, il carattere profondo e ancestrale della mediterraneità e della sua integrale umanità. E’ incredibile, ma viene spontaneo riflettere sul fatto che tra queste montagne sospese nell’immensità ed eternità del cielo e del mare, alla fine del mondo, la scuola e l’umanità del Bel Paese hanno segnato qualche punto a mio favore. Quando lo racconterò, correrò il rischio di non essere creduto. Dovrei condurre qui i miei alunni.
Ci mettiamo a sedere io e il mio amico presso la taverna di questo vecchio ed indimenticabile montanaro cretese che interpreta il meglio della ospitalità omerica. Per ore discutiamo tra di noi a 2000 metri di altezza! Alla fine ci ricordiamo del rientro al nostro albergo . Siamo costretti ad accomiatarci dal nostro vecchio (e dalle montagne) con grande tristezza. Credo che non lo dimenticheremo mai più, io e il mio amico. Che sia questa la più bella “lezione” di educazione interculturale di tutti i tempi? Chissà!
Ci lasciamo alle spalle Elafonissi. Un solo pensiero: ci ritorneremo perché a noi non piace, come non piace ai giovani e agli adolescenti, seppellire il nostro cuore in riva al mare. La nostra “land rover”si inerpica come un bulldozer su queste montagne ripide e scoscese. Qui se le diedero di santa ragione Tedeschi e Inglesi. Non si riesce a capire ancora oggi come i Tedeschi siano riusciti a conquistare Creta, così inaccessibile ancora oggi. Infatti percorrere qualche chilometro con il nostro automezzo su queste vie sterrate a strapiombo è un’impresa davvero biblica. Ma si sa, i Tedeschi sono cocciuti.
Ora il paesaggio cambia, si fa molto più verde, seguiamo una vallata ombrosa e lussureggiante. Gran parte dei nomi sono di origine Bizantina e Veneziana. Da quello che riesco a capire, questa valle doveva essere una specie di linea di difesa militarizzata che metteva in comunicazione il lato ovest di Creta con la parte nord , una specie di corridoio strategico. Lungo la strada voliamo accompagnati dalle note melodiche della musica greca.
Il giorno dopo, rigenerati da un profondo sonno ristoratore, ci prepariamo ad un altro raid. Questa volta non trovo alcuna opposizione da parte del mio amico, novello Nuvolari, il quale al momento sembra avere dimenticato le esaltanti campagne di scavi archeologici Minoici. Meglio così, evidentemente ho vinto la scommessa!
Questa volta puntiamo la prua del nostro Nautilus verso il sud di Creta, dove la costa dà sul continente Nero. Ci inerpichiamo sulle cime tempestose delle altissime montagne cretesi. Montagne che davvero ti danno la sensazione di scalare l’Olimpo alla ricerca degli dei e delle dee della Grecia antica. Sul nostro percorso troviamo capre e pastori su altipiani brulli e impervi che spesso ti danno le vertigini perché vedi il mare a strapiombo sotto di te e finisci col confondere il cielo col mare e le montagne e viceversa. Vorrei qui con noi qualche alunno e qualche mio collega per tempestarli di domande, per chiedere loro, in questo ambiente sospeso tra mare e cielo, nella quasi eternità dell’Essere Supremo, cosa ne pensino di questi pastori cretesi, con cui discuto fraternamente come se li conoscessi da secoli, così aperti e disponibili, pur nel loro isolamento geografico. Cosa ne pensino di questa gente di montagna, che con la propria infinita disponibilità e omerica ancestrale ospitalità, dimostra l’estrema arretratezza e meschinità culturale di quanti, in Italia, sognano un impossibile ritorno alla frammentazione regionale e pseudo-federale del Bel Paese. Ma è sempre altrove che l’uomo, specchiandosi nell’altro uomo, scopre i suoi limiti e la sua presunta modernità.
Scendiamo giù dalle montagne, in picchiata: sotto di noi un paesaggio indimenticabile. Mi vengono in mente le immagini di un film di qualche anno fa. Un conquistador spagnolo mezzo pazzo e fanatico, discende le vette aeree delle Ande, sbucando dalle nuvole e scorgendo sotto di sé l’Oceano della Foresta Amazzonica. Noi non valichiamo le Ande, ma lo spettacolo è ancora più strepitoso. Sotto di noi, dai nostri 2000 metri e oltre, osserviamo una costa frastagliata e completamente desertica che si confonde nel blu del mare Libico. Ci sentiamo un poì invasati anche noi del sacro e furente spirito di antichi esploratori. D’altra parte sono convinto che pochi Europei siano giunti ancora oggi da queste parti.
Andiamo in picchiata giù sulla costa scoscesa, alta e nera, immersa nel blu abbacinante del mare Libico, sconfinato. Con la nostra “land rover” risaliamo altre montagne su per percorsi tormentati, tormentosi e accidentati: sembra di essere sulle montagne dell’Himalaya. Alla fine, davanti a noi, appare una località, un faro nell’oceano della solitudine, che ci riporta a un minimo di civiltà. La località si chiama “Francocastello”, in effetti consiste solo in un castello, dei Normanni, dei Crociati, dei Veneziani o dei Bizantini? Difficile da stabilire. Diamo un’occhiata al maniero, ne rimaniamo delusi, anche se esso fa una strana impressione piantato com’è tra mare e montagne brulle e deserte. Ci consoliamo, anzi, ci rallegriamo molto “paganamente” con un bagno dedicato a Poseidone. Ormai ogni spiaggia cretese da noi “scoperta” viene battezzata puntualmente con una nostra gioiosissima immersione profana dentro acque la cui purezza supera ogni più fertile immaginazione. Nuotare dentro questo mare significa ringiovanirsi e scrollarsi di dosso tutte le croste e le scorie della cosiddetta civiltà occidentale.
Siamo giunti al punto che devo richiamare il mio amico, ex archeologo, ora pilota, continuamente alla dura realtà del ritorno. La “conversione” del mio amico al neo-paganesimo greco o alla fede ortodossa sembra totale e irreversibile. Non ne vuol sapere più nulla del progredito Occidente e delle sue meravigliose tecnologie. Ma, anche se con molti sforzi e penosi ricatti, riesco a riportarlo alla santa ragione e al volante. Finalmente si riparte. Era ora. Io ho voglia di andare assolutamente a Moni Preveli. Ci tenevo a vedere e visitare il monastero ortodosso. Ma giunto vicinissimo al monastero, per prima cosa mi metto a guardare dall’alto di uno spaventoso dirupo e scorgo sotto di me una meraviglia della natura: un fiume incontaminato e profondo, circondato da palmeti e vegetazione subtropicale che si getta con la sua foce in un mare verde rame. Dimentico immediatamente il monastero, convinco altrettanto rapidamente il mio amico che veramente non appare affatto contrariato dalla mia proposta, anzi. Non riusciamo a trovare l’accesso al piccolo Paradiso, neanche scalando il dirupo si riesce a raggiungere il fondo. Allora ci imbarchiamo su un motoscafo che sembra fare la spola da dove più o meno siamo noi alla spiaggia nascosta. Paghiamo il nostro obolo e in un batter d’occhi giungiamo al Paradiso. E lungo questa spiaggia, calpestata da una Babele di uomini e donne, la cui provenienza ci è celata dai loro costumi da bagno, avvistiamo due belle ragazze, tedesche o olandesi, non lo sapremo mai, che già avevamo osservato in azione precedentemente. Le due ragazze sono arrivate a questa spiaggia inerpicandosi su per coste e dirupi senza seguire vie asfaltate o sterrate o vie del mare. Rimaniamo stupiti. Stiamo per avvicinarci per cercare di parlare con loro, ma ci risulta un po’ difficile, perché mostrano di non gradire la nostra presenza. Ma si vede che il nostro modo di fare non è passato inosservato, perché due ragazze ci rivolgono all’improvviso la parola. Non sono inglesi o americane, perché parlano italiano. Io comincio subito a parlare con loro. Sono di Firenze e sono venute qui giù a trascorrere le loro vacanze. Dalle loro parole traspare evidente che non se la passano stupendamente. Non riescono a nascondere una certa malinconia, un certo disincanto esistenziale impercettibile e pure sospeso nell’aria, anzi tra mare e cielo, in questa Creta che si rivela sempre più un termometro dell’anima. Ci chiedono dove siamo alloggiati. Rispondiamo che siamo sistemati nell’albergo più bello e confortevole dell’isola e non ci muoveremmo da quell’Eden ritrovato nemmeno se ci offrissero il premio Nobel su un piatto d’argento.
Il sottoscritto, più del mio amico caduto all’improvviso in un profondo silenzio, continuava a decantare le meraviglie del nostro rifugio dorato. Allora le due ragazze, quasi in coro, mi apostrofano con toni spasmodici, ma sinceri: “Ma che cosa dici? Tu avrai il confort, ma come noi, vai in cerca di qualcosa o di qualcuno, il tuo vagabondare per quest’ isola, tra mari, monti, spiagge e forre, ti rende un viaggiatore d’Occidente di lusso, ma la tua anima è in pena. Siamo convinte che tu e il tuo amico, improvvisamente caduto nel torpore, sareste felicissimi di trascorrere, non solo le vacanze, ma le vostre esistenze, se con voi ci fosse la serenità dell’amore”.
Non ricordo neanche più il nome di quelle due ragazze fiorentine incontrate su quella favolosa e mitica spiaggia di Creta. Ma a distanza di tempo, quando le idee hanno avuto il tempo di sedimentare e maturare, quelle parole, al momento schivate e consciamente cancellate e rimosse, mi sono tornate in mente, sono riaffiorate alla mia coscienza di uomo del mio tempo e sono diventate macigni, blocchi granitici che ostruiscono i miei sentimenti. Quelle ragazze avevano ragione e credo che quando si riferissero alla serenità che dona l’amore, non intendessero solo il classico amore tra uomo e donna, ma anche quell’indefinibile e purissimo sentimento dell’anima che consente all’uomo di scoprire nell’altro la sua umanità, rompendo il muro dell’incomunicabilità che ci rende estranei e alieni l’uno all’altro.