Domenico Quirico è libero. Il giornalista de La Stampa, dopo una prigionia di cinque mesi in territorio siriano, ha fatto il suo rientro in Italia. Ad accoglierlo presso l’aeroporto di Ciampino c’erano non solo i giornalisti, ma anche il ministro degli Esteri Emma Bonino, che ha reso noto come la “notizia della liberazione di Domenico Quirico l’abbia riempita “di grande gioia e soddisfazione”, aggiungendo che il suo pensiero va “prima di tutto ai parenti che potranno finalmente riabbracciare Quirico dopo tanti mesi e numerosi momenti di ansia”. Il giornalista non è apparso il ottima forma: smagrito, spento, poco energico, quasi timido e poco spigliato nel rispondere alle domande accanite dei suoi colleghi, che spesso avevano un contenuto tanto semplice, quanto stupido, per esempio l’immancabile quesito: “Hai avuto paura?”. Ora, anche un bambino di un anno saprebbe dare una risposta azzeccata a tale domanda. Ma questo è solo un piccolo particolare, una piccola sfumatura. Siamo certi del fatto che Quirico non se la deve essere vista bella in un paese così dannatamente complicato, sopra le cui vicende neanche i migliori analisti geopolitici sanno darci una spiegazione soddisfacente. E’ cosa buona e giusta soffermarsi invece sulle parole che egli ha utilizzato per riassumere la sua dura esperienza siriana. Sono parole semplici, quanto profonde, cementificate da un senso di delusione verso quelli che erano i suoi intenti, una volta giunto in loco: “Ho cercato di raccontare la rivoluzione siriana, ma può essere che questa rivoluzione mi abbia tradito. Non è più la rivoluzione laica di Aleppo, è diventata un’altra cosa”, questa la rivelazione più significativa al suo rientro. Essa ci ricorda che spesso con troppa facilità abbracciamo cause rivoluzionarie senza conoscerle bene. Questo fu l’errore compiuto da uno dei più grandi intellettuali del Novecento, Michel Foucault, il quale espresse frettolosamente ammirazione verso la rivoluzione khomeinista del 1979 in Iran, che poi si rivelò differente da come aveva immaginato al principio. “E’ l’insurrezione di uomini dalle mani nude che vogliono sollevare il peso formidabile che grava su ciascuno di noi (…). E’ forse la prima grande insurrezione contro i sistemi planetari, la forma più folle e più moderna di rivolta”, così scrisse il 26 novembre 1978, quando il popolo iraniano aveva iniziato a ribellarsi contro lo Scià di Persia. Di lì a pochi anni la rivoluzione iniziò a mostrare la sua faccia più estrema, quella della dittatura, al di là delle euforiche interpretazioni del filosofo francese. Troppo spesso diamo fiducia all’ignoto, cadendo nell’errore che non si dovrebbe mai compiere, ossia affidarsi a delle fonti che non sono certe, tangibili, verificabili. Ma è altresì difficile rispettare in maniera ferrea tale obiettivo, nel momento in cui quella realtà che vogliamo raccontare è lontana da noi. Dovremmo avere la pazienza di non gettarci in valutazioni affrettate. Le rivoluzioni sono forse gli eventi politici e sociali più controversi e complicati della storia umana. Necessitano di tempo per essere compresi a fondo. Questo è qualcosa però che ai “grandi della Terra” non piace, perché come sappiamo le loro scelte sono più dettate dalla strategia che dal buon senso. Confidiamo però che in questo specifico caso, quello della caotica Siria, si temporeggi il più possibile, giacché abbiamo tutti compreso quale scenario tragico potrebbe aprirsi, invadendo questa parte di Medio Oriente, in cui campeggiano interessi di varie nazioni. La triste testimonianza di Quirico è solo un’ulteriore conferma della pericolosità di affidarsi a priori nelle mani di quanti si definiscono rivoluzionari, avendo però un’arma in mano. Particolare non irrilevante.