Canzone all’Italia.Le note del mito (e delle vergogne) del Belpaese

Italia, patria di poeti, artisti ed eroi, di santi, di pensatori e scienziati, di navigatori e trasmigratori, questo è ciò che recita la famosa iscrizione, posta sulla facciata frontale del Palazzo della Civiltà Italiana, che la fantasia popolare, proprio quella dei santi , degli eroi e così via, ha confidenzialmente ribattezzato “Colosseo quadrato”. Molto spesso però il mito dell’italica stirpe è stato affidato, nel corso dei secoli, ai suoi straordinari cantori, che fin dal XIV secolo hanno descritto pregi e difetti del suolo natio. Basti pensare alla Canzone all’Italia di Petrarca, poi ripresa da Leopardi, in cui il vate di Arezzo supplica il suo Paese di unirsi contro la minaccia straniera (sono passati quasi 700 anni, ma le cose sono cambiate poco!). Anche oggi, come in passato, i cantori, o meglio i cantautori, dedicano versi alla loro contraddittoria nazione. Come, ad esempio, Francesco De Gregori, che nel 1979 pubblica l’album Viva l’Italia, contenente la canzone omonima nella quale descrive la forza del nostro Paese, colpito al cuore eppure ancora vivo, schiacciato dalla speculazione e dalla disinformazione, ma che non teme il futuro, l’Italia di coloro che dimenticano in fretta e di quelli che andrebbero dimenticati, riassumendo infine tutto nei versi “L’Italia metà giardino e metà galera, viva l’Italia, l’Italia tutta intera”. de gregoriAncora, nella seconda parte di questa ballata evocativa, il cantautore romano ricorda gli Italiani che lavorano e quelli che disperano (quanto è attuale), descrive una nazione divisa tra dovere e fortuna che ha subito sfregi inguaribili, come quel 12 dicembre a Piazza Fontana, che si veste con il tricolore ma resta sempre nuda e infine, nell’ultimo verso, celebra quello che gli Italiani sanno fare meglio: resistere. Sempre sua, poi, Adelante! Adelante! contenuta nell’album Canzoni d’amore del 1992 in cui, pur non nominando mai l’Italia, è chiara l’allusione al nostro Belpaese, una terra che confonde la notte e il giorno, l’andata con il ritorno, l’innocente e il criminale, il diritto con il favore. Una nazione in bilico tra il futuro e il moderno, ancora profondamente divisa tra nord e sud, che vive nel mito di plastica del calcio e mescola politica e sentimento nazionalpopolare. Un luogo in cui non ci sono più fiumi, inquinato e soffocato dalla speculazione e dalla criminalità, che non si riconosce più nei suoi padri e non rispetta più i suoi figli. Ma la nostra bistrattata Italia è stata anche esaltata e ricordata con affetto. È il caso de L’italiano, di Toto Cutugno, canzone presentata a Sanremo nel 1983 dove si classificò quinta ma che divenne un fenomeno di costume. Si dice che durante una visita all’estero del Presidente Sandro Pertini, fu suonata la canzone di Cutugno al posto dell’inno di Mameli. Proprio a Pertini è dedicato un verso della canzone, in cui si sottolinea il coraggio e la riconoscenza della nazione nei confronti del presidente partigiano; e poi ancora l’essenza dell’italianità, dagli spaghetti al dente all’autoradio, dal canarino sul davanzale alle canzoni che parlano sempre di amore e cuore, dal caffè ristretto alla Seicento, fino al culto del dio pallone e all’eccessiva ammirazione per l’America. Infine quella preghiera a Dio, come a tirarlo per la veste e a dirgli: “Ci sono anch’io”, tipicamente italiana. Dunque viva i cantanti, che sono i più attenti e inflessibili critici dei vizi italiani, ma al contempo ci ricordano quanto bello prezioso sia il nostro Paese. Lasciamoli cantare, perché ne sono fieri, sono Italiani, Italiani veri.

 

Patrizio Pitzalis

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