Dopo aver vissuto e narrato l’esperienza indelebile del terremoto della propria città, l’aquilano Danilo Balducci è partito alla ricerca di realtà simili, in virtù di un’irrefrenabile esigenza di esplorare e narrare ancora.
Questo suo desiderio di documentare per immagini lo ha portato fino in Armenia, in un inverno senza fine, dove lunghe distese di neve si alternano a cimiteri nei quali i morti non hanno nomi né volti, a strade non asfaltate colme di pozzanghere, a precarie costruzioni in amianto divenute abitazioni permanenti.
Balducci si è fatto strada fra la gente del posto, è stato accolto nei loro giacigli della vergogna ed ha condiviso ed immortalato ricordi e paure, povertà e sofferenza.
È stato così che il fotografo aquilano ha raccontato magistralmente, con sobrietà e poesia, la vergogna del dopo terremoto in Armenia, attraverso una serie di fotografie rigorosamente in pellicola bianco e nero.
Tutto ebbe inizio il 7 dicembre del 1988, quando nel villaggio di Gyumri una violenta scossa di terremoto seminò morte e distruzione, provocando 25 mila vittime.
Oggi, 25 anni dopo, a Gyumri nulla è cambiato e l’orrore permane: i fantasmi del disastro sono tuttora presenti ed ingombranti, uniti ad una sofferenza perpetua, amplificati da una condizione perenne di povertà e di disperazione.
La parola chiave di questa vergogna è “domiks”, traducibile in italiano con “piccola casa”. Ad oggi sono più di 2000 le famiglie che vivono ancora in queste strutture: si tratta di vagoni ferroviari, containers e costruzioni in amianto, alcuni dei quali vennero forniti come abitazioni dal governo sovietico agli sfollati. I meno fortunati dovettero invece provvedere da soli alla costruzione dei nuovi giacigli, dove vivono tuttora.
È lo stesso Balducci a spiegare che la scelta di documentare una situazione post sismica differente è stata determinata dalle mutazioni che, in un contesto palesemente diverso da quello aquilano, hanno colpito e segnato profondamente la popolazione armena: ciò che ne deriva è una specie di “come saremo”, precisa il fotografo, applicata alla sua città d’origine.
Anche a Gyumri, infatti, il tessuto sociale è stato totalmente disgregato e le abitudini dei cittadini sono cambiate radicalmente, irreversibilmente.
La mostra, inaugurata il 26 ottobre presso la sede di Antropomorpha, in via Castruzzio Castracane 28 A a Roma, sarà aperta al pubblico fino a sabato 16 novembre, esclusi sabato e domenica.
Michela Graziosi