In principio erano le borgate, quartieri della capitale definiti bonariamente “popolari”, termine che in realtà sottintendeva il pregiudizio e il sospetto che in quei posti abitassero persone non propriamente per bene. Luoghi che con il tempo sono divenuti scenario di moderne saghe, fatte di violenza e decadimento, trasformate in poesia dai racconti, ad esempio, di Pasolini, che amava perdersi in queste lande degradate, alla ricerca dell’energia animalesca e sporca emanata dalle persone che vi abitavano. In epoca recente il mito della borgata è rifiorito grazie al Romanzo criminale di De Cataldo, che racconta le vicende della banda di fuorilegge, impadronitasi di Roma negli anni Settanta e Ottanta, partendo da una delle borgate più famose della città, la Magliana. Gli “eroi” di queste meschine mitologie moderne erano venuti fuori dalla guerra, cercando di sopravvivere in zone dove la legge non arrivava, dove il più forte comandava e il più debole soccombeva, dove il riscatto sociale si otteneva solo attraverso il freddo acciaio di una pistola o picchiando furiosamente tutto e tutti. Un misero affresco della realtà ma anche il quadro preciso di un’epoca, immortalata ironicamente dal cinema neorealista in capolavori come I soliti ignoti e Il mattatore, che nel tempo si indurì e incattivì, come raccontano I ragazzi di vita di Pasolini e la cronaca nera dei cosiddetti “anni di piombo”. Oggi Roma ha cambiato completamente volto, questi luoghi hanno perso i loro connotati perché la città si è allargata a dismisura, inglobando quella che, una volta, era solo campagna. Ormai restano degli enormi casermoni, la cui sola vista mette sconforto, nei quali vivono, depressi e grigi, i figli di quegli eroi negativi, rimpiangendo il passato che, benché violento e brutale, rappresentava un’identità che oggi hanno perso, correndo incontro al consumismo quando i nonni, invece, cercavano di correre via dalla fame. Altri luoghi, invece, sono diventati chic e à la page, si sono riempiti di locali, che spillano birra e offrono cocktail a prezzi assurdi, rompendo la pace (e anche qualcos’altro) degli abitanti, che un tempo erano artigiani e commercianti di piccolo calibro. Questi posti, come Trastevere o San Lorenzo, una volta brulicavano di uomini del popolo rozzi, ignoranti, bestemmiatori e violenti ma anche veri e autentici. Oggi le botteghe dei “pizzicaroli” e dei ciabattini, i bar fumosi e le feste popolari (come quelle di Noantri e dell’Immacolata) non esistono più oppure hanno perso molto del loro valore. Al loro posto, neon e locali etnici, in cui si fa cucina fusion, nello stesso luogo dove prima si cucinava solo l’amatriciana; certo non ci sono più gli accoltellamenti per strada o i regolamenti di conti, gli scontri tra autonomi e polizia, ma sono stati sostituiti dallo spaccio, dalla vacuità, dal rumore e dall’alcol. Senza certamente rimpiangere la brutalità di un tempo, si può però affermare che una parte della storia e dell’identità di Roma è andata perduta per sempre; forse si trattava di cose, per le quali non andare fieri ma erano comunque simboli di autenticità e di un passato che non dovremmo dimenticare perché, a suo modo, era anche poetico. Come il Riccetto, protagonista dei Ragazzi di vita di Pasolini, nel corso dell’opera cambia, omologandosi alla civiltà del consumismo e non riconosce più la borgata dove è cresciuto, così anche i luoghi hanno perso il loro aspetto e si sono trasformati in contrade senz’anima.