Georgia Lepore nuovamente autrice e regista di un'opera originale ed inedita

A ognuno la propria gabbia

Tre attori eccezionali per la messa in scena di un copione che non è da meno, toccante, riflessivo, deciso, affilato al punto giusto per addentrarsi nelle coscienze.

Alessandro Averone, il giornalista, Marco Quaglia, il prete, Davide Lepore, lo zingaro, tutti e tre racchiusi in un claustrofobico non luogo ed in un apparente non tempo quasi anonimo, in attesa di essere, eufemisticamente, liberati. Da fuori solo una sirena ed una luce intermittente che annunciano forse la fine, forse di altre persone, o avvisano che non c’è più tempo. Tempo per cosa? per fuggire, per parlare, per irrompere, per amare, per dire la verità, per salvarsi, per annientarsi, per rivendicarsi. Liberati se la sirena  fischia più volte, o imprigionati se fischia una volta sola: altri individui che entrano nel non luogo.

Un giornalista, emblema della ricerca della verità, un prete, emblema di amore, uno zingaro, di libertà, sono minacce per loro, per questi loro che decidono le sorti di chi è diverso, di chi è libero, di chi è mistero, di chi è vero e giusto.

La verità, se esiste, deve essere sotterrata insieme a chi la rincorre e la trova; gli amori e la sessualità, forse troppo educati ad essere soppressi e per questo demonizzati, se provati, accesi, riconosciuti, inducono all’autoinflizione di pene, e il mistero che ricopre ogni rom dà agli zingari troppo potere, e quindi mette chi vuole essere migliore – loro quelli fuori, quelli che suonano la sirena – nella posizione di paura.

Una piece che ricorda alcune delle realtà cui la storia ci istruisce da sempre ma che l’essere umano non permette di relegare nel passato in un manuale di storia atto allo studio di ciò che siamo stati, ma che purtroppo, e al contrario, ricorda ed attualizza.

In un copione di un unico atto che sfiora la durata di un’ora e con un finale inaspettato, Georgia Lepore ha condensato con maestria e con la delicatezza e profondità sue ben note a tutti noi, peculiari argomenti diversi, attuali, veri, insinuando il crescendo dell’evolversi del quadro, di quella stanza preludio di morte, di minaccia, di ultime vere identità, di ultime vere ed umane confessioni, di dilemmi, di rassegnazione che sfocia in lotta, di lotta dopo l’annientamento. Una denuncia velata, ma esplicita, spudorata ma inattaccabile con una verve pasionaria insita nello scrivere e nel dirigere dell’autrice. Sorprendente e geniale nel finale, laddove le quattro mura della gabbia in cui sono rinchiusi i tre malaugurati protagonisti destinati ad essere “liberati” la verità trova il suo destino per essere letta, ascoltata, denunciata.

Una piece di denuncia? No, di memoria.

A questo proposito, abbiamo intervistato l’autrice, nonché regista, stessa.

 

 

Come è arrivata l’idea del “Recinto”?

Non è stata una cosa ragionata. Gli argomenti affrontati nella stesura del testo, l’amore, la verità, la libertà sono temi che mi stanno molto a cuore. Così ho pensato a come potevano essere incarnati e rappresentati anche fisicamente. Il resto è venuto da sé …  i personaggi hanno cominciato a parlare da sé.

Mi parlava di una sorta di esperimento. Cosa intendeva?
Volevo vedere l’ “effetto” che faceva sul pubblico, perché lo spettacolo dura solo 45 minuti e l’argomento è alquanto particolare… Se non avesse funzionato magari avrei cercato di portarlo a un’ora come gli atti unici canonici, ma sono ben felice che abbia funzionato perché a me piace molto così.

I temi affrontati sono molto attuali. È possibile che l’ispirazione sia un po’ venuta da ciò che gli occhi osservano in questo momento?

In realtà il testo non l’ho scritto in questo momento. L’idea è di tre anni fa e ho cominciato a scrivere. Poi ho lasciato e, solo un anno fa, ripreso. Posso dire di essere stata un po’ Cassandra? in ogni caso tutto questo forse è nato da un mio profondo timore e l’idea di metterlo in scena adesso è venuta dall’urgenza di dire qualche cosa in proposito … adesso, anche se il carattere estemporaneo ed il non luogo fa pensare ad una collocazione qualsiasi. Diciamo che, ciclicamente, qualcuno decide di essere migliore degli altri.

In che senso?

C’è qualcuno che decide che è meglio degli altri con chissà quale criterio, e in questa convinzione decide che gli altri devono essere come lui e quelli che non sono come lui non valgono nulla e solo per questo vanno allontanati o eliminati. Ho un’intolleranza all’intolleranza. Diciamo che la rivoluzionaria che è in me era già pronta. Sono molto pasionaria in questo.

Una sorta di denuncia?

Non proprio, non c’è bisogno di una denuncia: le cose che non vanno sono abbastanza evidenti a tutti. Semmai volevo ricordare come dovrebbero essere. Ricordiamoci chi siamo. Io ho moltissima fiducia nell’essere umano. 

“Il recinto” può avere diverse interpretazioni. Quale è il significato usato nello spettacolo?

Il recinto è soprattutto  il non luogo dove si trovano i personaggi. Ma, come dice anche una battuta “ognuno ha il suo recinto”, il concetto può essere esteso al mondo fuori che poi si conforma al male, omologando le individualità tutte insieme e accomunate nell’orrore e nel senza pensare più di tanto. Come le mandrie, che, appunto, sono indistinte, e … recintate. Poi, c’è da dire che io odio ogni cosa che sia costrizione o impedimento alla vita altrui e tutto ciò che costringe gli altri ad essere qualcosa che non sono.

Perché proprio questi tre personaggi, un giornalista, uno zingaro e un prete?

Il giornalista è colui che scrive, e che nasce per la ricerca della verità, se è un giornalista. Il prete è l’incarnazione di due tipi di amore: l’amore umano e l’amore divino. Lo zingaro perché, chi più dei rom rappresenta la libertà? La libertà è nomade.

Cosa vorresti che il pubblico, uscendo e a luci spente, provasse o … ricordasse?

Vorrei non tanto la commozione, ma appunto, che si ricordasse ciò che la nostra generazione ha vissuto, che capisse l’importanza della memoria di un qualche cosa che non doveva andare così. Come diceva il Che: di essere capace di indignarti sempre quando un’ingiustizia viene commessa, in qualunque parte del mondo. Perché è questo che affratella l’essere umano, a prescindere dal senso religioso del termine.  Anche se strumentalizzato per propagande coi led luminosi, il concetto che l’amore vince sull’odio è vero. Se non siamo capaci di provare amore abbiamo già perso.

 

Presentato dalla Sycamore T Company

Disegno Luci di Giorgio Rossi
Impianto scenico di Alessia Sambrini
Ufficio Stampa Maya Amenduni
Teatro Piccolo Re Di Roma – Via Trebula 5 Roma
Biglietti: 10 euro più 2 euro di tessera – Prenotazioni: 06.77591270

Il progetto si colloca all’interno della rassegna “Punti di Rottura” ideato dalla produttrice Cythia Storari: “Punti di rottura perché sono tre spettacoli che parlano di tre storie aventi al loro interno un momento in cui qualcosa si spezza, dentro anche i personaggi stessi. Da lì nascono reazioni inaspettate, o nelle situazioni che si creano e da cui si tenta di uscire. E’ come quando si tende molto un filo e poi il filo si spezza. Quello che poi può succedere da questo crack può essere bene o male”.

 

I prossimi appuntamenti sempre al Piccolo re di Roma sono i seguenti:

 23/24/25 Aprile 2010

NEUROSI DELLE 7 E 47
di Ennio Speranza

Con Gabriele Sabatini
Regia di Massimo Natale e Gabriele Guidi

Un uomo aspetta un autobus. O sogna di aspettarlo. Un uomo è in preda al delirio. O sogna il suo delirio. Un uomo è in balia delle sue ossessioni. O sono le sue ossessioni che lo hanno portato al punto in cui è arrivato. Un uomo aspetta un autobus. E squaderna la sua neurosi. Fino a che non si decide a compiere un atto risolutivo per mostrare a se stesso di essere capace di reagire. O forse anche questo non è che un inganno.
Neurosi delle 7 e 47 è una parodia, ma né cariturale né burlesca. Forse lo è, parodia, nel senso di imitazione scadente, stereotipa, grottescamente atteggiata.
Neurosi delle 7 e 47 è allo stesso tempo gesto d’affetto e di rabbia nei confronti del teatro di Sarah Kane e di un teatro che nel momento in cui si rivela, non fa altro che girare a vuoto. Un teatro zoppo, autoreferenziale, ingrippato, talmente drammatico da risultare quasi comico.
Neurosi delle 7 e 47 è una Psicosi delle 4 e 48 all’amatriciana. Quindi, come dire, assai più terribile del suo modello.
Neurosi delle 7 e 47 può essere letto, declamato, recitato o visto recitare, assunto prima o dopo i pasti. Meglio prima.
Ennio Speranza

30 Aprile, 1 e 2 Maggio 2010

OSCILLAZIONI
Di Vitaliano Trevisan

Con Riccardo Bocci
Regia di Valerio Vittorio Garafa

Note di regia
‘Oscillazioni’ è un testo dal titolo appropriato. Come una melodia che rimane identica ma sembra cambiare a causa delle armonie che le si muovono sotto, le parole di questo testo trasformano i propri significati, tramutando l’ossessione in presa di coscienza e viceversa, in una continua intermittenza sul cui sfondo si affaccia un destino incombente e, forse, ineluttabile. Attraverso il racconto di una vicenda personale ed estrema, il personaggio compie un viaggio fatto di percorsi mentali che si restringono su un quotidiano ossessivo per poi allargarsi fino a confrontarsi con l’idea del senso della vita e della Natura. Sinapsi poliritmiche che disegnano un’esistenza dove l’identità oscillante tra l’essere e il non essere cessa drammaticamente di essere un problema.

Valerio Vittorio Garaffa

Federica Gualtieri

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