«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».
Primo Levi
Era il 27 gennaio 1945 quando l’Armata Rossa apriva i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz in Polonia, mostrando al mondo gli orrori che al suo interno erano stati consumati. Le vittime di quello che con un termine improprio, perché significa “sacrificio”, viene definito Olocausto e che invece gli ebrei chiamano Shoah, “distruzione”, furono circa 6 milioni, tra i quali molti bambini. La persecuzione antiebraica fu certamente la manifestazione più estrema e orribile della politica nazista, che si inquadrava in un più vasto programma di difesa della razza. La “soluzione finale” del problema ebraico, così come veniva definita nel gergo burocratico nazista, venne pianificata il 20 gennaio del 1942 e i suoi propositi erano agghiaccianti. Dapprima il rastrellamento da ovest verso est degli ebrei, poi il loro trasferimento nei ghetti in Polonia, ai lavori forzati. I più deboli, sarebbero subito morti di stenti. I superstiti, considerati pericolosi perché “seme di una rinascita ebraica”, eliminati di conseguenza. A tale progetto, non collaborarono solo tedeschi: a diversi livelli di consapevolezza e responsabilità anche polacchi, francesi e italiani. La minaccia della persecuzione incombeva sugli ebrei già a partire dal 1933, ma purtroppo non se ne colse l’esito catastrofico. In Italia, durante gli anni Trenta e poi ancora nel corso del conflitto mondiale, la cultura antifascista non percepì l’antisemitismo quale elemento centrale dell’ideologia nazista. Un intellettuale che invece capì perfettamente il pericolo della minaccia hitleriana fu lo storico della Cabala Gershom Scholem, che nel 1940 scrisse a Walter Benjamin, ponendogli un interrogativo assai lungimirante: -“Che ne sarà dell’Europa dopo l’eliminazione degli ebrei?”. Ma ormai era troppo tardi e di lì a qualche anno la “distruzione” si sarebbe compiuta. Per ricordare lo sterminio del popolo ebraico, nonché le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, tutti quegli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia e la morte, il Parlamento italiano, con la legge n. 211 del 20 luglio 2000, ha riconosciuto e istituito il 27 gennaio come “Giorno della Memoria”. In tale data, attraverso cui si vogliono ricordare anche coloro che si opposero al progetto di sterminio, mettendo a rischio la propria vita per proteggere i perseguitati, vengono organizzati eventi, cerimonie, incontri, volti alla narrazione e conseguente riflessione dei fatti legati a questa vergognosa parentesi della storia dell’umanità. Attraverso la memoria possiamo infatti mantenere vivo il ricordo di un evento che deve considerarsi irripetibile, perché contrario al concetto stesso di umanità. Senza memoria e senza storia non è possibile ricostruire un presente migliore, nonché un futuro. Tale ricorrenza, non deve avere solo uno scopo commemorativo, ma anche didattico; un monito per le future generazioni. Come ha ricordato lo scorso anno il ministro consigliere Ofra Farhi*, addetta culturale in Italia per l’Ambasciata d’Israele, esprimendosi in occasione dell’apertura della mostra Israel Now, Reinventing the Future: “Non si può andare avanti senza ricordare il passato”. Un concetto fondamentale, che i sopravvissuti alla Shoah hanno sempre cercato di trasmettere attraverso le loro preziose testimonianze.
*Dal gennaio 2010 Ofra Farhi è alla guida dell’Ufficio culturale dell’Ambasciata di Israele a Roma, uno strumento per fornire informazioni sulla cultura israeliana nel suo complesso e per fare da interlocutore alle istituzioni culturali italiane che desiderano maggiori informazioni sulla cultura israeliana. Compito dell’Ufficio Culturale è far conoscere a queste ultime gli artisti israeliani giovani e più affermati, operanti nei settori delle arti visive, dello spettacolo, della danza, teatro e cinema, della letteratura e della musica, che con i loro lavori tessono la trama vibrante della cultura e dello stile israeliano.
Silvia Di Pasquale