“Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto ‘in trasferta’”. Con queste parole, dalle pagine del Corriere della sera del 7 maggio 1949, Indro Montanelli celebrava la scomparsa prematura e funesta della più grande leggenda del calcio italiano. Non ci sarebbe neanche bisogno di raccontare le gesta del Torino degli anni Quaranta. Nei cuori e nei ricordi di tutti i veri tifosi italiani resta impressa la memoria di quella formidabile formazione, amata da tutti gli appassionati di calcio, in ogni parte d’Italia. Purtroppo i fatti recenti, avvenuti alla Juventus Stadium nel corso dell’ultimo derby Juventus – Torino, portano alla luce un’allarmante insensibilità e ignoranza del mondo del calcio nei riguardi di uno dei suoi miti. Particolarmente meschina è stata l’esposizione di uno striscione su cui campeggiava l’immagine di un aereo che si schianta come quello su cui perse la vita quella formidabile squadra, a pochi passi da casa, sul campo di Superga. Dunque è meglio, forse, rinfrescare la memoria a questi “gentiluomini” che hanno tentato di sfregiare la memoria di un monumento nazionale. La leggenda nasce nel 1939, quando Ferruccio Novo diventa il presidente della squadra. È un uomo burbero e un rigido amministratore, ma ama alla follia il Toro e ne ha vestito anche la maglia con scarsi risultati. Decide di dar vita ad una società moderna, sul modello delle squadre inglesi e così si circonda di collaboratori fidati, concedendo la guida tecnica delle giovanili all’inglese Leslie Lievesley e la prima squadra a Ernest Egri Erbstein che, in quanto ebreo, fu costretto a lungo ad operare in incognito. Il primo colpo fu l’acquisto dal Vicenza del giovane Franco Ossola, che diverrà la prima pedina dello squadrone. Nell’anno successivo l’Italia entra in guerra, ma il campionato di calcio prosegue. Il Torino non è protagonista, ma Novo decide di investire con forza sul mercato e acquista, per il campionato 1941/1942, Ferraris II, eccezionale ala sinistra della Nazionale campione del mondo nel 1938. Lo paga 250mila lire, uno sproposito per quegli anni. Arrivano poi Romeo Menti, ala destra velocissima e dal tiro fulmineo, e Guglielmo Gabetto, proveniente addirittura dai “nemici” bianconeri. Il Torino adotta quindi, prima squadra in Italia, il “sistema” uno schema di gioco inventato dall’allenatore dell’Arsenal (squadra inglese), che prevedeva compiti difensivi semplificati e che, di fatto, inventò la marcatura a uomo e il ruolo di stopper. Anche la Nazionale di Pozzo si adatta al modulo del Torino, ma lo scudetto quell’anno è vinto dalla Roma. Fatale, per il Toro, la sconfitta col Venezia, nel quale militano due giovani terribili: Loik e Mazzola. Dopo la partita Novo scende negli spogliatoi e tratta direttamente lì l’acquisto dei due calciatori per la folle cifra di un milione e 400mila lire. A questo punto il Torino è una squadra fortissima, è la favorita per il campionato 1942/1943, che si rivela più difficile del previsto a causa della resistenza opposta dalla sorpresa Livorno. Alla fine il Toro trionfa, all’ultima giornata, espugnando il campo di Bari con un gol proprio di Mazzola. Vince anche la Coppa Italia e da inizio alla leggenda, trionfando nei quattro campionati successivi ed eguagliando il record della Juventus del Quinquennio d’oro. Molti altri campioni indimenticabili vestono in quegli anni la maglia granata, da Silvio Piola a Bacigalupo, da Mario Rigamonti a Pietro Ferraris. È una squadra irresistibile, con la vittoria nel sangue, la sua superiorità sulle altre squadre è imbarazzante e un episodio, avvenuto a Roma, è lampante. Nel primo tempo il Toro sta perdendo per uno a zero, negli spogliatoi i giocatori si guardano negli occhi e concordano che è il momento di fare sul serio; al ritorno sul campo la squadra è trasformata e la partita si conclude con uno schiacciante sette a uno per i granata. I numeri sono straordinari, anche se non raccontano nemmeno la metà della grandezza di quella squadra. Il campionato 1945/46 si conclude con lo strabiliante dato di 18 reti subite in 19 partite, ma ancora più incredibile è il 1947/48 in cui i granata vincono 29 partite, mettendo a segno 125 gol, una cosa pazzesca per una squadra di più di sessant’anni fa. Ma, come detto, il destino crudele è sempre dietro l’angolo e attende il Grande Torino il 4 maggio del 1949 alle 17.05. La squadra è sul trimotore FIAT G.212, che la sta riportando in Italia da una partita di esibizione giocata a Lisbona in onore del calciatore lusitano Francisco Chico Ferreira, capitano del Benfica e della Nazionale portoghese, che aveva stretto amicizia con Mazzola, capitano dell’Italia, durante una partita disputatasi a Genova tra le due Nazionali il 27 febbraio del 1949. Nello schianto muoiono tutti, giocatori, dirigenti e giornalisti, compreso Dino Ballarin, terzo portiere che non doveva nemmeno partire ma che andò perché suo fratello, Aldo, convinse il mister a portarlo al posto del secondo, Renato Gandolfi, al quale di fatto salvò la vita. Gli uomini morirono, ma la leggenda risorse dalle fiamme del rogo e non perirà mai. Finché ci sarà il calcio e la sincera passione per esso, riecheggeranno sui campi le gesta dell’invincibile armata guidata da Valentino Mazzola. Pazienza se qualche cretino dimentica o non è interessato a conoscere. Ora e per sempre: Forza Grande Torino!
Patrizio Pitzalis