I capolavori orafi del tesoro di San Gennaro lasciano per la prima volta il Banco di Napoli e vengono esposti nella Capitale grazie alla Fondazione Roma. E al lavoro del professor Ciro Paolillo e di un equipe di studiosi provenienti anche dalla Sapienza.
“Quello di San Gennaro è forse il più importante tesoro gemmologico italiano, perché rappresenta la storia della gioielleria napoletana e italiana: è un patrimonio storico-culturale di valore inestimabile di cui nessuno, finora, si era davvero reso conto”: Ciro Paolillo, docente di Storia, Economia e Produzione della Gioielleria presso l’università La Sapienza e co-curatore della mostra sul tesoro di Napoli- a Palazzo Sciarra fino al prossimo febbraio-, ha lavorato per tre anni, con un’equipe “interamente composta di volontari, perché fondi statali non ce n’erano”– tra cui molti suoi collaboratori nell’ateneo romano-, alla selezione e catalogazione dei pezzi in esposizione. Una minima parte di quelli che compongono l’immenso tesoro (stimato in oltre ventunomila esemplari) e di cui sono stati portati a Roma solo i più preziosi e significativi. Primo fra tutti, ovviamente, la Mitra a opera di Matteo Treglia, “un artista sconosciuto ai più, eppure il più grande orafo italiano di tutti i tempi”, sottolinea Paolillo, esposta proprio nel trecentesimo anniversario dalla consegna: un capolavoro che rappresenta la nascita della gioielleria italiana, con canoni e tecniche- come quella della tridimensionalità- utilizzati ancora oggi. Il disegno è quello dei broccati tipici del tempo e le allegorie della cristianità sono rappresentate, con incredibile modernità, attraverso i colori delle oltre 3700 pietre che la decorano: la speranza nel verde degli smeraldi, la forza della fede nel bianco dei diamanti e il sangue dei martiri nel rosso dei rubini. Ci sono poi la collana del santo, assemblata con gli omaggi votivi dei regnanti di tutta Europa- le croci di Giuseppe Bonaparte e Maria Carolina d’Austria, oltre a quella episcopale di Umberto I di Savoia donata dopo esser scampato all’attentato del 17 novembre 1878, proprio a Napoli, la spilla di Maria Cristina di Savoia, busti e statue e il calice in oro di Pio IX realizzato da Castellani su disegno del Valadier. Tutte testimonianze di una scuola orafa fiorita dopo la peste che, nel 1656, uccise quasi l’80% della popolazione e della cui eccellenza nelle manifatture restano pochissimi esemplari, tra cui appunto quelle che costituivano l’intoccabile tesoro del patrono della città, una scuola in cui, nelle botteghe, gli orafi lavoravano a stretto contatto con architetti e scultori. “Abbiamo voluto intitolare la mostra Il tesoro di Napoli” conclude Paolillo “proprio perché questi settanta pezzi rappresentano più di una testimonianza di devozione religiosa: sono un patrimonio artistico inestimabile e tratteggiano il vero volto di uno dei centri culturali più vivaci del Sette e Ottocento”. Per questo, dopo la mostra di Roma, il tesoro tornerà a Napoli per costituire un museo permanente che contribuisca a rilanciare, anche turisticamente, quella che, nonostante difficoltà e pregiudizi, resta una delle più belle città del mondo.