In ricordo di Alexander Langer, pioniere del multiculturalismo e infaticabile costruttore di pace

Sono trascorsi esattamente venti anni da quel 3 luglio del 1995 quando Alexander Langer decise di porre fine alla propria esistenza, impiccandosi ad un albero di albicocche nei pressi di Firenze. Di quest’ideologo, del suo pensiero, delle sue battaglie, della sua storia, si sono progressivamente smarrite le tracce. Forse perché era un personaggio scomodo e soprattutto un anticonformista che riusciva a disobbedire anche all’anticonformismo di maniera. Nato nel 1946 a Vipiteno, nel Sud Tirolo, Langer era cresciuto in un ambiente contrassegnato dalle tensioni etniche tra italiani e sudtirolesi. Essendo perfettamente bilingue, capì prima degli altri l’importanza del plurilinguismo per la convivenza pacifica tra le persone. Alexander LangerNel suo splendido Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica del 1994 scriveva parole dal sapore profetico, visti gli sviluppi faticosi della convivenza tra ‘diversi’ in Italia, in Europa e anche in altri continenti: nelle nostre società – rifletteva Langer  – “deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita (…) La convivenza plurietnica, pluriculturale, plurireligiosa, plurilingue, plurinazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione (…) In simili società è molto importante che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione”. Fu proprio nel ruolo di costruttore di ponti, che assegnò innanzitutto a se stesso, che vedeva la possibilità di creare un nuovo mondo, all’interno del quale occorrono “mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera” e soprattutto “traditori della compattezza etnica”, anche se non transfughi. A metà anni Novanta, la ex Jugoslavia era dilaniata dai conflitti etnici e Langer, pur essendo una pacifista, volle chiedere di persona al neopresidente francese Chirac di intervenire con una operazione di “polizia internazionale” in Bosnia. Questa posizione gli costò l’attacco feroce dei pacifisti di cui lui era considerato il leader. In realtà, come spiega Marco Boato nel suo libro Alexander Langer, costruttori di ponti editore La Scuola, il pensatore sudtirolese era un autentico costruttore di pace più che un pacifista teorico ed era pronto a qualsiasi sacrificio, anche intellettuale, pur di conseguire l’obiettivo della convivenza interetnica. D’altra parte, conosceva bene la violenza politica poiché, tra il 1970 e il 1976, aveva attraversato insieme a Boato l’esperienza della sinistra extraparlamentare in Lotta Continua. È però agli inizi degli anni Ottanta che arriva la svolta quando Langer fonda i Verdi e nel 1989 e poi di nuovo nel 1994 diventa europarlamentare. I suoi temi sono quelli della “conversione ecologica” ripresa di recente da Papa Bergoglio nella Enciclica LAUDATO SI’, dei diritti umani, della pace e il suo motto è “più lentamente, più profondamente, più dolcemente” in netta contrapposizione con l’imperativo categorico della fretta tipico della modernità.  In questi tempi di feroce attacco ai migranti e ai popoli nomadi come i sinti e i rom, vogliamo riportare il punto di vista originale di Langer su di loro e anche su di noi: “A differenza di tutti gli altri, rom e sinti hanno imparato a essere leggeri, compresenti, capaci di passare sopra e sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessi, e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno. La distruzione inesorabile di un mondo conviviale (…) ha tolto agli zingari il loro mondo naturale: non si può togliere l’acqua ai pesci e poi stupirsi se i pesci non riescono più a essere agili, gentili e autosufficienti come una volta. Eppure bisogna che l’Europa con quella sua stragrande maggioranza di ‘sedentari’ accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana e faccia posto a un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli stati nazionali, fiscali, industriali e computerizzati.”

 

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asquale Musella

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