Jesse Owens.L’uomo nero degli incubi di Hitler

Lo sport ha un grande potere, quello di creare miti. Come una sorta di aedo moderno, è in grado di trasformare in leggenda le gesta atletiche di un campione, consegnandole alla storia e alla memoria come esempi indelebili. Ma a volte può capitare che anche lo sport si sbagli e travisi i fatti, facendo entrare nella leggenda i suoi eroi dalla porta sbagliata. Poi la Storia mette tutto al suo posto e questi eroi vanno a occupare lo spazio che meritano. Qualcosa del genere è capitata a James Cleveland Owens, detto Jesse, che si è scontrato con il più grande “cattivo” della Storia, Adolf Hitler. La parabola di questo mito dello sport inizia nel 1913 a Oakville in Alabama, suo padre si arrangia come può facendo il bracciante agricolo nelle stesse piantagioni in cui il nonno di Jesse ha lavorato come schiavo, il motivo è molto semplice: sono neri. In Alabama vivevano e vivono ancora oggi molti afroamericani ed è uno degli stati più razzisti d’America, dove sono accaduti molti fatti di sangue, perciò gli Owens si trasferiscono a Cleveland in Ohio. Qui Jesse impara l’arte di arrangiarsi, come molti ragazzi neri durante la Grande Depressione; frequenta le scuole tecniche e nel pomeriggio lavora in un negozio di scarpe, quando può si allena nella corsa che ama moltissimo. Finalmente qualcuno lo nota e gli offre una borsa di studio per l’Università statale dell’Ohio, che lui accetta solo dopo aver avuto la certezza che nell’accordo rientrasse anche un posto fisso per il padre. E così quel giovane senza un futuro apparente, riesce persino a frequentare l’università e il 25 maggio del 1935 accadde qualcosa di incredibile. Owens partecipa al Big Ten meet di Ann Arbor nel Michigan e nel giro di 45 minuti stabilisce quattro record del mondo: egli fu il primo uomo ad andare oltre gli 8 metri nel salto in lungo (8,13 m record superato solo nel 1960), 200 metri piani (20’’3), 200 metri a ostacoli (22’’6 primo uomo a scendere sotto i 23 secondi) e uguagliò quello sui 100 metri (9’’4). L’anno seguente partì per la grande avventura delle Olimpiadi di Berlino, che di certo non rappresentavano solo un evento sportivo. Tutta la manifestazione fu organizzata del regime nazista per essere un’enorme macchina di propaganda delle idee razziste di Hitler riguardo la superiorità della razza ariana. Molti miliardi di marchi furono spesi per ristrutturare o costruire impianti e palazzi che magnificassero lo stato nazista. Molte persone negli Stati Uniti avevano chiesto il boicottaggio nei confronti di una nazione che già all’epoca aveva rivelato un regime dittatoriale illiberale e antisemita. Owens vinse ben quattro medaglie d’oro in quell’edizione, nei 100 e nei 200 metri piani, nel salto in lungo e nella staffetta 4×100 alla quale non voleva nemmeno partecipare per lasciare spazio ai compagni. Il suo record nell’atletica leggera fu eguagliato solo nel 1988 alle Olimpiadi di Seul dal connazionale Carl Lewis. Fin qui la storia, che tra l’altro sarebbe già leggenda di suo, ma da qui in poi inizia il mito. Si dice infatti che il führer stizzito oltremodo per la vittoria di Owens, lasciò lo stadio senza congratularsi con l’atleta americano. Jesse aveva messo in imbarazzo profondo il regime, dimostrando l’infondatezza e la stupidità della teoria sulla superiorità della razza ariana. In realtà le cose andarono ben diversamente. Alcuni giorni prima, infatti, Hitler si era rifiutato di stringere la mano ad un atleta nero e in generale si congratulava solo con i tedeschi, il Comitato Olimpico fece notare che la cosa poteva creare un incidente diplomatico e così il cancelliere non strinse più la mano a nessun atleta limitandosi a salutarli dalla tribuna d’onore. Così fece anche con Owens e, giorni dopo, gli donò un suo ritratto in segno di congratulazioni. Per molti anni dopo quella straordinaria performance, l’atleta di Oakville sostenne che la rivalità tra lui e Hitler non c’era mia stata e anzi denunciò ad ogni occasione il razzismo e l’emarginazione subiti in patria, mettendo alla berlina l’ipocrisia di quelle democrazie (Stati Uniti in testa) che avevano partecipato alla festa nazista e che ora criticavano duramente il reich. Owens ne aveva tutte le ragioni. Nel 1935, quando aveva concesso zquello straordinario exploit al meeting di Ann Arbor, fu eletto atleta dell’anno negli USA un certo Lawson Little, naturalmente bianco. Ancora, dopo i trionfi di Berlino non ricevette né un invito né una telefonata di congratulazioni dal presidente Roosevelt, preoccupato della reazione degli stati del sud ad un suo gesto di riconoscimento. E così a fare la foto di rito col presidente fu un certo Glen Morris, vincitore del decathlon, oscuro e sconosciuto ma del colore giusto, il bianco. A Berlino, Jesse aveva dormito nello stesso albergo insieme ai connazionali bianchi, tornato in patria invece ritrovò la segregazione (che sarebbe durata altri 30 anni) e fu costretto ancora una volta a sedersi nella parte posteriore degli autobus, ad entrare negli hotel dall’ingresso sul retro e ad usare l’ascensore di servizio. Dopo Berlino conobbe la miseria e la segregazione di un paese, il suo, che dimenticò uno dei propri atleti più grandi perché apparteneva alla razza sbagliata. Fu costretto a gareggiare in competizioni ridicole contro motociclisti e cavalli purosangue, oppure in gare in cui concedeva agli avversari 10 o 20 metri di vantaggio, vincendo sempre e comunque. Alla fine trovò da solo la sua strada, come insegnate e motivatore e finalmente, nel 1976, gli fu conferita la Medaglia presidenziale della libertà, massima onorificenza civile negli Stati Uniti. Finalmente ricevette le congratulazioni del presidente della sua nazione, allora Gerald Ford, purtroppo con 40 anni di ritardo. Owens è morto nel 1980 e il suo corpo riposa in un cimitero di Chicago, nel 1984 gli è stata dedicata una strada, ma non in America, a Berlino e nel 1990 gli è stata conferita la Medaglia d’oro del Congresso postuma dal presidente George W. Bush. Niente male per un ragazzo nato ad Oakville in Alabama, il cui mito stava per essere offuscato da una meschina strumentalizzazione ma che rifulgerà per sempre nella storia dello sport, per il coraggio dimostrato sulla pista e soprattutto fuori di essa. 

 

Patrizio Pitzalis

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