Lo scorso 22 febbraio si è tenuta l’ottantasettesima edizione della Cerimonia degli Oscar, la più famosa e importante kermesse cinematografica, che premia le migliori espressioni annuali della settima arte. I nomi dei favoriti erano stati tutti ampiamente annunciati e pronosticati dagli addetti ai lavori ma alcune sorprese ci sono comunque state. La prima e più roboante è il clamoroso flop di American Sniper, il film di Clint Eastwood, che racconta le vicende della “leggenda” dei marines Chris Kyle, famigerato per aver ucciso decine di persone in battaglia. L’insulso patriottismo a stelle e strisce ha ceduto il passo di fronte a un film francamente non eccelso, violento e celebrativo della parte peggiore del sentimento d’amor patrio. Ha invece trionfato l’originale, strampalato e un po’ nevrotico Birdman, di Alejandro González Inarritu, direttore di capolavori come 21 grammi, Amores perros e The Burning Plain. Quattro le statuette andate al film, tra le quali le più importanti per la miglior regia e per la miglior pellicola, nonché quella per la miglior sceneggiatura originale (condivisa dal regista messicano con Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris e Armando Bo) e la miglior fotografia. Si tratta di una specie di rivincita della cultura messicana, spesso trattata negli “States” con una punta di sufficienza, anche se c’è da dire che, da 21 grammi in poi, Inarritu ha usufruito di budget e interpreti di livello mondiale. I migliori attori protagonisti hanno confermato la tendenza dell’Accademy a premiare più le capacità trasformistiche e il coraggio di “imbruttirsi”, piuttosto che le vere qualità recitative. I due riconoscimenti, infatti, sono andati a Eddie Redmayne, protagonista de La teoria del tutto, biografia dello scienziato Stephen Hawkins, affetto da SLA, e a Julianne Moore, che ha interpretato una malata di Alzheimer in Still Alice. Un solo premio per il pregevole The Imitation Game, di Morten Tyldum, la storia del matematico inglese Alan Turing che, di fatto, inventò il computer e diede così un contributo fondamentale alla vittoria degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, la cui grandezza è stata per decenni nascosta e negata a causa della sua omosessualità. Una piccola delusione personale, infine, per il trattamento riservato a Grand Budapest Hotel, uno dei film più interessanti e fantasiosi dell’ultimo decennio, a mio parere. Del tutto ignorata la deliziosa e naif interpretazione di Ralph Finnes nei panni dell’umanissimo Monsieur Gustave e poca considerazione per la regia di Wes Anderson e la bellezza generale del film. La pellicola ha comunque vinto 4 statuette, per la miglior scenografia, la miglior colonna sonora, i migliori costumi e il miglior trucco, tutti riconoscimenti meritati, che concorrono alla straordinarietà di quest’opera. Dunque il sipario si è di nuovo chiuso sugli Oscar lasciandoci, come sempre, molti cliché e alcune piacevoli sorprese.