Si può essere, per vent’anni, l’idolo incontrastato delle folle, esaltando con le proprie performance il pubblico che viene ad ammirarti ed essere, contemporaneamente, molto sfortunati? La risposta è sì, perché è esistito un campione dello sport professionistico americano, che nonostante il successo, andò incontro a una fine davvero incredibile. Il suo nome era Pete Maravich. “Pistol” era il suo soprannome, per le distanze siderali dalle quali tirava, e fece le fortune della Louisiana State University prima e di alcune franchigie NBA poi (Atlanta, New Orleans, Boston). Nato in una cittadina americana dal nome stranissimo, Aliquippa, detiene ancora oggi il record della media più alta di realizzazione tra i giocatori della NCAA, il campionato di basket universitario made in USA. Un artista del gioco, al quale i freddi numeri non rendono totalmente giustizia, che entrò nella lega professionistica nel 1970, dopo aver strabiliato con medie pazzesche al college e con la sensazione d’essere in grado di vincere da solo le partite. I suoi 44 punti di media, infatti, furono realizzati, vale la pena sottolinearlo, in un basket nel quale non esisteva ancora il tiro da tre punti, oltre a questo aggiungeva cambi di direzione strabilianti, passaggi “no look” e giocate che, alla fine degli anni Sessanta, pochi giocatori potevano permettersi. “Pistol” era uno degli eletti, un grandissimo giocoliere, utile alla squadra e con un carisma e un fascino, che altri grandi campioni possono solo sognare d’avere. Solo per citare due statistiche inverosimili, possiamo dire che entro nella NBA con 23 punti di media e realizzò il suo massimo in carriera contro New York, a cui rifilò ben 68 punti. Terminò la sua carriera nel 1980, giocando al fianco di un giovane Larry Bird. È ricordato come uno dei giocatori più fantasiosi della storia, con maggior talento e carisma, ma la sua bravura non fu mai coronata da un successo. Purtroppo, questa meravigliosa favola non ha avuto un lieto fine; Maravich concluse la sua carriera tra gli infortuni che lo tormentarono, non riuscendo a scrollarsi di dosso la fama di splendido perdente, la sua vita, invece, finì il 5 gennaio del 1988, nella palestra di un liceo di Pasadena, mentre giocava con alcuni amici, avendo raccolto l’invito di un giornalista. Si accasciò sul parquet tra lo stupore di tutti e ancora più stupito fu il medico legale che gli fece l’autopsia. Non poteva credere che quell’uomo fosse riuscito ad arrivare a quarant’anni e per giunta affrontando una carriera da sportivo professionista; Pete, infatti, era nato senza l’arteria coronaria sinistra. Ecco perché, da bambino, aveva sempre quell’aspetto malato e sofferto: Maravich sarebbe dovuto morire allora, ma la sua grande determinazione si rifiutò di sottostare ai comandi della biologia. Purtroppo, non gli concesse di vedere riconosciuto il suo talento, che lo portò a essere inserito nella Hall of Fame del basket e nella lista dei migliori 50 giocatori di sempre nonché, naturalmente, a essere nominato “miglior cestita universitario della storia”. Per fortuna ci sono gli appassionati, che lo ricordano per il suo genio sopra alle righe e rendono omaggio a un campione, che seppe sconfiggere addirittura la sorte.