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“Che cos’è un nome? Quella che chiamiamo “rosa” anche con un altro nome avrebbe il suo profumo” così declamava Giulietta al suo balcone, eppure il diritto al nome è stata una delle più grandi conquiste dell’umanità. Passare dall’enunciazione di appartenenza ad un clan, al riconoscimento dell’individuo è un passo nella Storia, simile a quando l’essere umano ha deambulato eretto.
Mater semper certa est, pater numquam, ma nella società romana la donna non aveva neppure diritto al suo nome in pubblico e veniva qualificata come pertinenza della propria gens, col solo nomen gentilizio, rivelando il praenomen solo nelle relazioni intime. Così, nel diritto di famiglia romano, ai figli era attribuito il solo cognome paterno, sebbene fosse discretamente diffuso nell’antichità, anche se in contesti culturali improntati al matriarcato, l’ordinaria attribuzione per linea materna (licii, egizi, cantabri, culture del centro america).
Anche l’ebraismo, prima religione monoteista ad impronta ortodossa, sopravvenuta in oltre 5.000 anni di conquiste e diaspore, l’appartenenza e lo status di ebreo passa per madre e sempre la madre è incaricata dell’imprinting culturale essenziale.
L’epilogo storico, dal medioevo in poi, ha teso a rafforzare la genealogia familiare nobiliare per parte maschile, con rigidi meccanismi di trasmissione dell’eredità, per evitare la polverizzazione dei possedimenti e del potere detenuto. Il diritto di primogenitura maschile, comportava rigidi meccanismi verso i cadetti, spesso obbligati a prendere gli ordini clericali, perdendo di fatto tutti i diritti di eredità, oppure incoraggiati a divenire cavalieri o ad intraprendere una carriera diplomatica presso la corte dei sovrani. Questo si rifletté nell’organizzazione sociale di stampo cattolico, ove le donne erano esautorate dalla presenza pubblica.
Nei Paesi anglosassoni, invece, la partecipazione femminile si fece via, via paritaria, arrivando ai tempi attuali in cui in Germania od in Gran Bretagna, ad esempio, le coppie costituite in matrimonio decidono quale cognome scegliere, avendo la facoltà di sceglierne un altro diverso.
In Italia, la Costituzione, all’art.22 riconosce il diritto al nome ad ogni individuo; la riforma del diritto familiare del 1975 ha equiparato i diritti tra i figli legittimi e naturali; da 37 anni giacciono in Parlamento proposte di legge per la scelta sull’adozione del cognome da riconoscere alla prole; 10 anni fa la Corte Costituzionale ha ammonito l’organo legislativo di sanare questa incongruenza con i dettati di eguaglianza tra i cittadini; nel 2014 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia perché la sua normativa non consentiva di dare al figlio il solo cognome della madre, configurandosi una discriminazione tra coniugi e un’ingerenza dello Stato nella vita familiare e privata; nel 2016 la Corte costituzionale ha rimosso tale vincolo di attribuzione automatica del solo cognome paterno, eppure ancora oggi siamo in attesa di una legge, dalla Corte costituzionale definita indifferibile, che dia visibilità alle madri ed alla completa, equilibrata identità del ramo materno e paterno, superando archetipi culturali desueti.
I tempi sono maturi per una ridefinizione paritaria dei ruoli e dei compiti pubblici e privati. La recente adozione della legge sulle unioni civili attesta una istanza di autodeterminazione dei cittadini nelle relazioni private ed una aspettativa di riconoscimento di pari opportunità e dignità dei generi da parte dello Stato. La libera scelta del cognome resta l’ultimo passo da compiere. Ed io voglio poter firmare dichiarando pubblicamente le mie origini familiari, perché sono figlio, nel nome del padre e della madre.
Federico Mattia Ricci