I Rusteghi – scriveva Goldoni – in lingua Veneziana non è lo stesso che i Rustici in lingua Toscana. Noi intendiamo in Venezia per uomo Rustego un uomo aspro, zotico, nemico della civiltà, della cultura e del conversare». Da qui, crediamo, il sottotitolo I nemici della civiltà, scelto da Gabriele Vacis e Antonia Spaliviero, ai quali si devono traduzione e adattamento, per il testo di Goldoni, andato in scena martedì 8 maggio al Teatro Quirino di Roma; regista lo stesso Vacis.
La trama è nota: quattro vecchi e selvatici mercanti veneziani, Canciano, Lunardo, Simon e Maurizio, tiranneggiano in famiglia, gestendo la vita delle mogli e dei figlioli; Lunardo e Maurizio decidono il matrimonio dei rispettivi figli, Lucietta e Felippetto, ma non vogliono che i giovani si vedano prima delle nozze. Grazie a uno stratagemma escogitato dalle mogli, in particolare da felice, moglie di Canciano l’ostacolo viene aggirato. Obtorto collo, i vecchi si arrendono al nuovo del quale sono portavoce i giovani e le donne.
L’autore veneziano scrisse I Rusteghi nel 1760, due anni prima di trasferirsi a Parigi; le polemiche con Gozzi e Chiari, ma ancor più il desiderio di esportare la propria riforma del teatro comico, di avere nuovo pubblico e nuovo mercato, sollecitarono la partenza, ma dire come nella nota di sala che questa commedia è «cupa e vagamente claustrofobica» e che il «disinganno di Goldoni è ancora vivo nelle parole dei protagonisti e descrive una società buia e alla deriva» è esagerato.
Certo, è in quest’ottica che Vacis e Spaliviero hanno riletto il testo goldoniano, ma va detto che, pur tra i simboli, i rimandi, i richiami alla contemporaneità hanno mantenuto la sostanza di quel testo.
Ne è nato un lungo atto unico, interpretato da una compagnia, somigliante più a quelle dei comici dell’Arte che a quelle della commedia riformata, che prepara a vista le scene e i cambi di costume, che ha un numero di attori insufficiente per cui qualcuno deve interpretare due ruoli, uno maschile e uno femminile per di più, che è composta da soli uomini. Tutte cose che accadevano anche ai tempi di Goldoni; non manca qualche estemporaneo scambio di battute tra gli attori e gli spettatori, ma quello esisteva già ai tempi di Aristofane!
Qualche simbolo non è facilmente comprensibile, nella scena finale, per esempio, c’è un grande rinoceronte. Nessun riferimento a Ionesco, ma al pubblico attento non sarà di certo sfuggita la battuta nella quale si parla di quell’animale come di una delle tante meraviglie provenienti dal mondo niovo apparse a Venezia. È attraverso la sua immagine, dobbiamo presumere, che passa l’idea della distruzione del vecchio mondo dei Rusteghi.
In genere non mi piace l’idea di attualizzare i classici, o comunque i testi del passato, o forse non mi piacciono gli stravolgimenti operati dai registi in nome della presunta attualizzazione, o forse bisogna soltanto saperla fare; ricordo, per esempio, di aver molto apprezzato, anni or sono, la nera e lutulenta Bottega del caffè secondo Rainer W. Fassbinder. Nel caso dei Rusteghi di Gabriele Vacis, attualizzare significa anche lasciarsi andare a riflessioni, proposte dagli attori agli spettatori, sollecitate dai temi della commedia. Si possono non condividere, come l’affermazione, moralistica e semplicistica, che l’oppressione, nel caso quella dell’uomo sulla donna, non rende schiavo soltanto chi soccombe, ma anche chi schiavizza, o condividere, come la constatazione che l’assenza dei padri, e qui intendo proprio i padri di famiglia, fa cadere i figli, del passato del presente e del futuro, aggiungo, con un tonfo sordo dal quale non ci si rialza, ma certo non appaiono estemporanee o posticce. L’unica cosa che lascia perplessi coloro che conoscono il teatro goldoniano è l’eliminazione, o quasi, del dialetto; fa un certo effetto sentir parlare italiano nelle case di quattro vecchi veneziani, bisbetici e conservatori. Appare evidente la concessione alla possibilità di comprensione degli spettatori, ma del resto, anche Goldoni teneva conto delle esigenze del pubblico!.
Il ritmo è veloce, gl’interpreti, Eugenio Allegri, Mirko Artuso, Natalino Balasso, Jurij Ferrini e Nicola Bremer, Christian Burruano, Alessandro Marini, Daniele Marmi tutti bravi; un bravo anche a Roberto Tarasco per composizione scene, costumi, luci e scenofonia,.
Lo spettacolo, prodotto da Fondazione del Teatro Stabile di Torino e Teatro Regionale Alessandrino, al quale il pubblico ha mostrato tutto il proprio gradimento ridendo e applaudendo a lungo all’uscita finale degl’interpreti, rimarrà in scena fino a domenica 20 maggio.
Box informazioni:
dal martedì al sabato ore 20.45
giovedì 10, mercoledì 16, sabato 19 maggio: ore 16.45; tutte le domeniche ore 16.45
botteghino 06/6794585
numero verde 800013616
mail info@teatroquirino.it
Mirella Saulini