Il fotografo italiano Matteo Bastianelli l’ha definita una “città piena di cicatrici”. Oggi Sarajevo è la capitale di un paese in cui l’economia postbellica non è ancora decollata. 22 anni era già iniziato il suo assedio, il più lungo dal secondo dopoguerra in Europa, attuato da parte delle forze serbo-bosniache contro la neonata repubblica indipendente di Bosnia-Erzegovina, che aveva ridotto la Jugoslavia alla sola federazione di Serbia e Montenegro. Le forze serbo-bosniache poterono contare sull’appoggio della vicina Repubblica serba di Milošević, favorevole alla realizzazione di un nazionalismo panserbo, che non escludesse anche la Bosnia-Erzegovina. Questo è il periodo in cui s’impose l’espressione “pulizia etnica”, a testimonianza della spietatezza con cui si agì nei confronti di chi paradossalmente non conosceva altra forma di convivenza all’infuori di quella cosmopolita. Sarajevo era infatti considerata la Gerusalemme d’Europa, una realtà urbana in cui fino all’avvento delle guerre jugoslave cristiani, musulmani ed ebrei erano stati capaci di dialogare reciprocamente, pregando a pochi metri l’uno dall’altro. Il destino di questa città era però legato a quello delle repubbliche della federazione jugoslava, un insieme fuso di popoli di civiltà asburgico-cattolica, ortodossa e turco-musulmana, tra i quali dopo la morte di Tito crebbe sempre di più la rivalità, complice anche il peso del debito estero e quello dell’inflazione, che tra il 1988-89 raggiunse livelli vertiginosi. Non stupisce perciò che nel censimento del 1981, solo un 5,4% della popolazione si definiva semplicemente jugoslava. Più complesso il caso della Bosnia Erzegovina, dove le componenti principali erano tre e si autodefinivano in base a diversi criteri: il 40% dei 4 milioni di abitanti si dichiarava musulmano, il 30% serbo, il 17% croato, un piccolo 8% jugoslavo e poi c’erano altri gruppi minori. Una volta scoppiata la sanguinosa guerra civile che avrebbe segnato indelebilmente la storia di questa repubblica, fino a quel momento tradizionalmente tollerante ai fini della sua stessa sopravvivenza, fu proprio la componente musulmana ad essere maggiormente esposta alle violenze, tanto da parte dei serbo bosniaci, quanto dei croato bosniaci. Era il 5 aprile 1992 quando il capo politico dei serbi di Bosnia, Radovan Karadžić, minacciò il genocidio come ritorsione alla dichiarazione d’indipendenza seguita al referendum del febbraio 1992, cui i serbi non vollero partecipare. Da quel momento in poi fu il linguaggio delle armi l’unico mezzo di dialogo fra le parti. In tre anni e mezzo la guerra in Bosnia ha provocato 100mila morti tra bosgnacchi (bosniaci musulmani), serbi e croati, di cui 11541 nella sola Sarajevo; una cifra quest’ultima, corrispondente al numero di sedie rosse che nel 2012 furono poste in fila lungo Via Maresciallo Tito, la strada principale che taglia in due la città, per commemorare un conflitto così vicino nel tempo, che probabilmente solo le future generazioni saranno in grado di raccontare senza che le lacrime prendano il sopravvento. Più di 1500 di quelle sedie appartengono alle anime dei bambini che durante i 43 mesi d’assedio non furono risparmiati dai proiettili e dalle granate di chi in quel momento li identificava come nemici. A Sarajevo se uscivi di casa dopo tre mesi trascorsi chiuso in cantina, dovevi essere consapevole che un giro in bicicletta all’aperto ti sarebbe costato la vita. Difficile e assurdo pretendere che i più piccoli lo capissero. Gli abitanti rimasero prigionieri dei cecchini che sparavano appostati sulle colline intorno alla città, oltre che dalle finestre dei palazzi. I serbi tenevano sotto tiro soprattutto il viale che collegava il centro all’aeroporto dove transitavano i tram, ovvero Sniper Alley, altamente pericoloso data la sua ampiezza. L’attacco peggiore avvenne il 5 febbraio del 1995 nella piazza del mercato quando una granata uccise 67 persone di varie nazionalità. Fuori dalla capitale, fu invece a Srebrenica, enclave musulmana nella Bosnia orientale, dove avvenne uno dei massacri più brutali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: 7mila musulmani furono trucidati dalle forze serbo-bosniache, sebbene la zona fosse stata dichiarata sotto la protezione dei caschi blu dell’Onu. I due principali responsabili dell’eccidio, Radovan Karadžić e Ratko Mladić, sono attualmente sotto processo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia dell’Aja, ma non bisogna tuttavia dimenticare che il loro arresto è avvenuto solo in tempi recenti. C’è anche un’ulteriore umiliazione inflitta alle donne musulmane durante la guerra, quella dello stupro, la più subdola arma da combattimento che le milizie serbe scelsero sistematicamente per allontanare la popolazione avversaria. Negli anni tra il 92 e il 95 in Bosnia Erzegovina più di 20mila musulmane subirono violenza carnale, eppure ancora oggi molti di quei criminali non solo sono rimasti impuniti, ma occupano cariche di rilievo all’interno della metà della Bosnia che gli accordi internazionali hanno concesso ai serbi. Non a caso, il film che Angelina Jolie ha dedicato alla vicenda, “In the land of blood and honey”, è stato aspramente criticato dall’associazione “Donne vittime della guerra”, nata nel 2003 a Sarajevo con l’aiuto di Amnesty International, perché nella sua trama si allude ad una storia d’amore nata tra un soldato serbo e una donna musulmana vittima di violenze; fatto impossibile a realizzarsi secondo il loro punto di vista. Le ferite aperte nella memoria di chi ha vissuto in prima persona questo sanguinoso conflitto sono ancora molte, così come le crepe che lacerano i palazzi, a testimonianza del fatto che poco più di 20 anni fa in Bosnia l’inferno ha preso il sopravvento, macchiando per sempre di terrore gli occhi di chi è riuscito a sopravvivere alla tragedia, spesso contro la sua stessa volontà, perché una volta persi tutti gli affetti più cari, ha trovato difficoltà nel dare un senso alla propria esistenza. Gli accordi di Dayton del 1995 hanno accettato una Bosnia divisa in due entità politiche separate tra serbo-bosniaci e croato-musulmani, testimoniando un’incapacità da parte dell’Onu nel favorire la pacificazione della situazione. Ma ancor più difficile sarà per gli oltre 25mila orfani di guerra comprendere come l’Unione Europea in quegli anni non sia stata capace di far sentire se non il suo peso militare, almeno quello diplomatico. La Bosnia-Erzegovina figura attualmente tra i paesi “potenziali candidati” per l’adesione all’Ue, così come il Kosovo e l’Albania, ma sarebbe interessante capire quanto questa scelta rappresenti una reale aspirazione da parte di chi è stato abbandonato al suo destino durante una guerra avvenuta non in un periodo remoto, ma in pieni anni Novanta. E questo non è un particolare di poco conto, perché mentre noi in Italia cercavamo di capire quale politico coinvolto nello scandalo di Tangentopoli avesse incassato più mazzette nel corso della sua carriera, in Bosnia non c’era cibo, acqua, luce né gas, ma solo morte e distruzione. Riaprivano inoltre i campi di concentramento, a meno di 50anni dalla chiusura di Auschwitz, un particolare quest’ultimo, decisamente agghiacciante.
Silvia Di Pasquale