L’età elisabettiana è stato quel periodo meraviglioso e intensamente creativo che segnò i secoli sedicesimo e diciassettesimo del Regno Unito e sopravvisse anche alla stessa sovrana Elisabetta I che con il suo carattere forte e pragmatico condusse il proprio Paese verso il dominio dei mari e dei popoli; le compagnie teatrali si esibivano spesso a corte per garantire alla sovrana e ai nobili un intrattenimento degno del rango, molti Lord patrocinavano e sostenevano economicamente diversi gruppi di attori. La protezione nobiliare era importante anche per non incorrere in multe o messa al bando per vagabondaggio: solo i membri effettivi di una compagnia teatrale, registrata presso il consiglio comunale cittadino, poteva esercitare l’arte di esibirsi. Gli attori inglesi, oltre ad avere un’ottima memoria per apprendere le battute in tempi brevi, cantavano, ballavano, tiravano di scherma e spesso erano anche acrobati e saltimbanchi; la voce e la gestualità avevano ruoli fondamentali e, non esistendo sistemi di illuminazione elettrica o di amplificazione del suono, la mimica corporale era accurata e molte gesta erano addirittura codificate, affinché lo spettatore cogliesse immediatamente lo stato d’animo dei protagonisti. Neppure l’improvvisazione era cosa rara e talvolta la pièce messa in scena veniva adattata alle caratteristiche del nuovo cast che la proponeva; occorrevano un forte spirito di adattamento e una duttilità di carattere: solo i più determinati e ambiziosi tenevano i ritmi estenuanti e la forte concorrenza dei colleghi. I duelli e le risse erano all’ordine del giorno e accanto ai teatri sorgevano case di tolleranza e locande dove il consumo di birra e tabacco erano notevoli; i ragazzi che interpretavano i ruoli femminili presso le compagnie vivevano normalmente con le famiglie degli attori anziani che facevano loro da maestri e educatori, le stradine vicino ai teatri erano abitate dagli attori e dalle maestranze che prestavano lavoro presso i cortili e i locali dove si svolgevano le rappresentazioni. Le attività urbane erano numerose e la popolazione delle campagne si spostava continuamente in cerca di opportunità e svago; la confusione e la moltitudine umana che ogni giorno aggrediva le strade londinesi colpiva immediatamente chi vi giungeva per la prima volta.
Fu questo il momento che vide approdare nella capitale britannica il giovane William Shakespeare originario di Stratford-upon-Avon nel Warwickshire; la Londra di quei giorni lontani era brulicante di vita e di possibilità da cogliere al volo: il carattere curioso e schietto di Shakespeare permise al drammaturgo in erba, nonché attore alle prime armi, di inserirsi nel vortice di novità e idee in fermento che il mondo teatrale prospettava. La competizione era forte e incappare in denunce di plagio o subire l’onta di vedere le proprie opere attribuite ad altri si concretizzava piuttosto di frequente, eppure l’imitazione e il prestito erano diffusi, così come il riproporre situazioni e aneddoti: la peculiarità degli autori era nella scrittura e nello stile e la “firma” del grande scrittore inglese era inconfondibile. Egli eccelleva sia nelle tragedie che nelle commedie e nei drammi storici, aveva conoscenze approfondite in campo medico, giuridico, commerciale, militare, della navigazione e degli usi di altri Paesi; utilizzò il corretto gergo per ogni disciplina e negli elaborati su personaggi e vicende storiche, esibì la propria preparazione anche sui classici in particolare Seneca, Ovidio Plauto e Plutarco.
Ancora oggi è vivo il dibattito tra gli studiosi del settore sulla paternità delle uniche e inimitabili opere shakespeariane e, a parte il dramma Edward the Third pubblicato anonimo sul finire del sedicesimo secolo e non incluso nel First Folio, gli altri componimenti sono attribuiti a William Shakespeare che produsse in vent’anni più di trenta opere. In quel momento non erano rare le collaborazioni tra autori e la revisione delle proprie composizioni; si mettevano in scena sei spettacoli la settimana e spesso il materiale veniva ripreso da altri lavori e, come nel caso del “Cigno di Stratford”, si ricreavano nella propria versione drammi imparati a memoria per la recitazione. Inoltre egli rivide personalmente numerosi drammi giovanili cui diede la propria impronta di uomo più maturo e con una visione plasmata dagli eventi che lo coinvolsero durante la propria frenetica vita. La società inglese era estremamente classista e ciascuno frequentava solo i propri ambienti, non di meno l’istruzione conseguita era un esempio di forte distinzione tra il popolo britannico; taluni scrittori come Marlowe approdarono al teatro come autori grazie ai propri studi universitari altri, come Shakespeare, vi fecero carriera calcando la scena ed egli è altresì considerato il primo autore già membro di compagnie teatrali. Inoltre il commediografo fece parte di moltissimi gruppi di teatro e frequentò ambienti esclusivi della società dell’epoca, egli non era un “emerito sconosciuto” ma un affermato attore e, grazie alla collaborazione dei colleghi, divenuti poi anche amici, si perfezionò quale autore e perfino “azionista” di teatri, ovvero aveva una quota sugli introiti derivanti dalle opere messe in scena e si occupava dell’amministrazione generale, dell’organizzazione e degli acquisti per permettere il miglior utilizzo del teatro stesso. Sembra infatti avesse uno spiccato fiuto per gli affari e, anche nei periodi di chiusura dei teatri a causa della peste, riuscì a mantenersi grazie ai propri investimenti e alle proprie doti. Shakespeare era bravissimo in ogni produzione teatrale e si riservò la proprietà delle proprie opere che normalmente era attribuita alle compagnie. I manoscritti del grande letterato sono purtroppo scomparsi e, grazie a Henry Condell e John Heminges che composero il First Folio, le trentasei opere sono giunte sino a questo secolo, quattrocento anni esatti dalla scomparsa; la cosa realmente incomprensibile è che le prima note biografiche sull’eminente drammaturgo risalgono solo ai primi del seicento, nonostante gli editori suoi contemporanei diedero alle stampe più di settanta opere e altrettante vennero messe in scena e replicate per anni. Le informazioni principali su questo uomo e sulla sua vita si decodificano dalle sue opere e dalla profusione di biografie e commenti prodotti in anni distanti da quando il poeta calcò il palcoscenico, interpretando soprattutto re e personaggi anziani; il suo pensiero lo trasmise tramite i propri scritti e il proprio stile, lasciando una traccia indelebile che attraversò il tempo, ma l’enigma lo avvolge ancora come uno spettro apparso improvvisamente dalle quinte o da una botola nascosta.
Il teatro aveva un fortissimo impatto sul pubblico sia per ciò che veniva rappresentato sia per l’effetto che i monologhi e i dialoghi avevano sulle coscienze degli spettatori ed è per questo che i puritani ne auspicavano la chiusura; costoro temevano che la suggestione e l’incanto suscitati alle persone conducessero alla degenerazione dei costumi. Il Bardo attraverso i suoi drammi creò un nuovo linguaggio e non ridusse mai i propri personaggi a mere caricature dei propri tormenti e delle proprie esperienze di vita; secondo la sua visione era centrale il tema della fortuna che muta di continuo; l’uomo non ha un rifugio cui anelare come il paradiso per Dante Alighieri: neppure la redenzione e il perdono, nel senso cristiano del termine, liberano dalla dannazione e dal tormento. Eppure il teatro shakespeariano non è né tetro né deprimente, è piuttosto permeato di mistero e di atmosfere oniriche: “Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è circondata da un sonno.” Come declamano i versi tratti da La Tempesta. Questo senso di impotenza dell’azione umana è incarnato in Falstaff quale burattino dell’amore e in Amleto quale vittima di sé stesso. La nostra esistenza è segnata dall’agire del fato, dall’intervento dei nostri genitori o addirittura di noi stessi, in un vorticoso avverarsi degli eventi come su una ruota mossa da forze sconosciute e imprevedibili. Si potrebbe addirittura intravedere nell’intelligenza di Amleto e nella vitalità di Sir John Falstaff qualità proprie del loro creatore cui furono cari i temi della fugacità della vita, del dubbio lacerante e dell’angoscia umana stillata da rivalità, invidia e conflitti interiori. Non vi sono risposte o verità buone come morale per tutti, ma semplicemente una rielaborazione continua di quello che realmente accade nel quotidiano di ciascuno, attraverso la più alta prosa inglese e i migliori versi sciolti donati ai posteri.
Con Romeo e Giulietta, Riccardo II e Sogno di una notte di mezza estate Shakespeare raggiunse l’apoteosi dell’analisi introspettiva e della scissione dell’Io, già ampiamente analizzato in Amleto e Otello, il principe danese logorato dal dubbio e dall’ingiustizia subita per mano dello zio usurpatore, il Moro di Venezia attanagliato dalla gelosia e dalla nostalgia per la moglie oltraggiata dalle insinuazioni del perfido Iago.
La lacerazione di sé stessi rivisse attraverso la divisione del regno di Re Lear, metafora profonda del conflitto generazionale e della fragilità delle proprie convinzioni: il brillante commediografo attraverso le proprie creazioni auscultò sé stesso, si osservò e scoprì il dramma umano dell’incomprensione della propria esistenza e dell’ineluttabilità della fine. L’uomo si rifugiava nell’amore per sfuggire alla propria fine, la dolcezza del sentimento cancellava il dramma della morte, eppure nulla placava la voracità del destino e ognuno è trascinato inesorabilmente verso esso, i repentini cambi di scena e di registro esprimevano a pieno lo sconcerto provato quantunque i giri della sorte ci sorprendono come un bandito nel buio. Il conflitto interiore divenne puro accanirsi contro gli elementi così magistralmente cantato da Romeo: “più e più luce è nel cielo, più e più buio è dentro di noi.” Tutto e tutti erano contro i giovani innamorati e questi versi tanto lirici incarnavano il pensiero dell’autore che non derise né compatì tanto livore, ma registrò l’ennesima sconfitta delle passioni umane, dilaniate e scosse nel breve ironico viaggio che sono le esistenze di ciascuno. “Spegniti, spegniti, breve candela! La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena e del quale poi non si ode più nulla: è una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.”