Quando si pensa alla partita del secolo, viene immediatamente alla memoria la semifinale della Coppa del Mondo di calcio del 1970 tra Italia e Germania. Ma quella non è stata l’unica partita storica dello sport mondiale, che abbia avuto un significato ben più profondo di quello puramente sportivo. Di fronte alla vittoria della propria nazionale, in una grande kermesse sportiva, tutti quanti riacquistano un po’ di amor di patria dopo aver trepidato con l’orecchio incollato alla radio o lo sguardo fisso allo schermo. Alcune vittorie però vanno ben oltre il patriottismo e sono conquistate per l’onore e la dignità di un’intera nazione e di un popolo. Per questo lo sport è, a tutti gli effetti, la vera mitologia moderna. Siamo a Stoccolma ed è il 21 marzo del 1969, si disputa la finale del Campionato del Mondo di hockey e a fronteggiarsi sul ghiaccio sono l’Unione Sovietica e la Cecoslovacchia (che ancora si chiamava così). Il 21 marzo è l’equinozio di primavera e circa un anno prima si era assistito ad un’altra Primavera, quella di Praga, e le protagoniste erano state le stesse: Cecoslovacchia e URSS. Già dalla metà degli anni Sessanta, in Cecoslovacchia serpeggiava il malcontento contro il regime comunista, in un nazione all’epoca arretratissima, che procedeva molto a rilento nell’opera di destalinizzazione. Questo, unito ad una forte recessione economica, nonostante il Paese fosse tra i più industrializzati d’Europa fin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, fece esplodere la protesta in quel ’68 che fu il crocevia di molte rivoluzioni. L’insoddisfazione popolare confluì nella figura carismatica di Alexander Dubcek, che il 5 gennaio del ’68 prese il potere, quando lo stesso leader sovietico Breznev, si rese conto che l’opposizione al premier Novotny era troppo compatta e coesa. Inizia una politica di profondi cambiamenti, soprattutto in ambito sociale, niente più censura, un sistema elettorale diverso, rispetto dei diritti umani. È l’inaugurazione del cosiddetto “socialismo dal volto umano”, che di certo non poteva piacere a Mosca, in piena Guerra Fredda, anche perché la Cecoslovacchia era, per popolazione e posizione geopolitica, fondamentale per l’Unione Sovietica. Così, la notte tra il 20 e il 21 agosto del ’68, i Russi invadono la Cecoslovacchia con cinquecentomila soldati e cinquemila carri armati; Dubcek e tutti i suoi sostenitori vengono arrestati o sollevati dai loro incarichi, tra questi c’è un certo Milan Kundera, il più grande scrittore della letteratura cecoslovacca, l’autore del capolavoro L’insostenibile leggerezza dell’essere. È la fine del “socialismo dal volto umano”, tutte le riforme democratiche vengono cancellate e molti Cecoslovacchi emigrano all’estero. Torniamo a quella sera a Stoccolma. La tensione si taglia con il coltello, i Cecoslovacchi si presentano con una striscia di nastro nero sulla maglia, proprio sopra il leone che è il simbolo della nazione. Sotto quel nastro c’è una stella rossa, che simboleggia l’amicizia coi sovietici, ma loro non sono più amici, se mai lo fossero stati. A farglielo capire perfettamente è il capitano dei Cecoslovacchi, Jozef Golonka, che non resiste alla propria indignazione e portandosi la mazza sotto l’ascella come un fucile, finge di sparare ad ognuno dei giocatori avversari. Il suo gesto sembra voler dire che in quel giorno sarebbero stati 18 contro 18, quel giorno si gareggiava con le mazze, non con i fucili e i carri armati. Il popolo cecoslovacco ha le orecchie attaccate alle radio, il primo tempo finisce 0 a 0, ma nel secondo dei tre tempi Jan Suchy insacca il pack e porte avanti la Cecoslovacchia. Suchy si chiama Jan, proprio come Jan Palach, che due mesi prima, in gennaio, si era dato fuoco in Piazza San Venceslao nel centro di Praga, per protestare contro il regime sovietico. Ancora oggi, Palach viene ricordato ogni anno come martire della libertà ceca. La Russia reagisce ma non riesce a segnare e nel terzo, decisivo tempo subisce il raddoppio da parte di Jozef Cerny. La partita finisce, la Cecoslovacchia è campione del mondo ma soprattutto ha battuto gli odiati invasori. Tutto il pubblico, anche quello svedese che parteggia apertamente per i Cecoslovacchi, intona il coro “Dubcek! Dubcek!”. Un giovane entra in campo con una maglietta che afferma che il suo popolo non ha paura dei Russi. Tutti i Cechi sentono di aver riacquistato la dignità, l’amore per la propria nazione e tutto per una partita di hockey. Insostenibile potenza dello sport.
Patrizio Pitzalis