Cantautore, chitarrista, interprete. Difficile inquadrare Jeff Buckley in una categoria: d’altronde si sa, le categorie offrono una semplificazione della realtà che comporta inevitabilmente la perdita di alcuni attributi e Jeff Buckley, di attributi, ne aveva parecchi. Una cosa però la possiamo affermare con una certa sicurezza: Buckley aveva un’anima che traspariva potente e vibrante in ogni sua canzone.
È il 23 agosto 1994 – esattamente 25 anni fa – quando la Columbia Records pubblica “Grace”, primo e unico disco del cantautore di Anaheim, che gli sarebbe valso un posto di tutto rispetto nell’Olimpo del rock. Un’opera che è un lascito alle generazioni future, una stella che brilla di luce propria, una di quelli che da sola vale un’intera carriera musicale, che non ha bisogno di conferme successive per meritarsi lo status di “capolavoro”.
Sarebbe stato pesante per chiunque avere alle spalle un padre come Tim Buckley, uno che viene considerato tra i più grandi geni della Storia del rock, ma non per Jeff. Jeff aveva una personalità e un carattere tali che gli impedivano di imitare qualcuno, diventandone una brutta copia. Jeff ha seguito il proprio istinto, la propria personalissima spiritualità, il proprio modo di vedere la vita; era uno che la vita la sentiva, che la percepiva in tutta la sua dimensione umana e terrena più che mistica e che non cercava una specie di sublimazione nella musica, a differenza di Tim: per Jeff la musica aveva una sostanza e una forma ben precise, quelle di un’esistenza vissuta e non vagheggiata. La sua grandezza? Riuscire a trasmettere un intero universo emotivo che pure aveva solide radici piantate a terra con una semplicità a tratti disarmante, senza una ricerca spasmodica di cerebralismi e sofismi vari, il tutto grazie a una voce che sapeva di inferno e paradiso insieme.
“Grace” è il risultato di tutto questo: 10 tracce che spaziano dall’alternative rock al folk rock, concepite appositamente per irretire l’ascoltatore e persuaderlo che mai nella vita potrà ascoltare qualcosa di anche solo lontanamente paragonabile. La chitarra di Gary Lucas accompagna la voce di Jeff creando un’armonia che sa di Cielo e Terra, impossibile da definire. L’estasi si raggiunge però con Hallelujah: il brano di Leonard Cohen viene riproposto da Buckley in modo assolutamente sublime. La voce e l’interpretazione raggiungono qui livelli inarrivabili, la pelle d’oca dopo l’ascolto è d’obbligo, così come l’accelerazione del battito cardiaco e, perché no, anche la difficoltà nel trattenere una lacrima. La definizione di “talento” risiede tutta in questo capolavoro, nella sua Hallelujah, nella carica emotiva di quel canto struggente che ci ricorda la nostra umanità, la nostra perenne ricerca di conforto dai marosi della vita.
Jeff Buckley muore la sera del 29 maggio 1997 all’età di trent’anni per annegamento. Una fine tragica e violenta, proprio come quella del padre. Giusto il tempo di
pubblicare “Grace”. Giusto il tempo di fare la Storia. «Jeff Buckley era una goccia pura in un oceano di rumore»: così lo ricorderà Bono Vox, leader degli U2.