Freddie Mercury, Roger Taylor, Brian May e John Deacon che emergono dall’oscurità, immortalati come Marlene Dietrich nel film Shanghai Express (1932): una copertina noir per una canzone altrettanto noir, un enigma musicale tra i più riusciti della storia del rock.
È il 31 ottobre 1975 quando i Queen fanno uscire Bohemian Raphsody, il primo singolo del loro quarto album, A Night at the Opera. Quasi interamente frutto del genio creativo di Mercury, che pare la scrisse su un elenco del telefono, la canzone ottiene immediatamente un successo sbalorditivo, al punto che ancora oggi rimane al terzo posto tra i singoli più venduti nel Regno Unito.
Il lavoro di registrazione è incredibile, scrupoloso e a tratti maniacale: sei settimane chiusi al Rockfield Studio 1, in Galles, 180 parti vocali (un record per l’epoca) impossibili da contenere in qualunque normale nastro, il pianoforte utilizzato da Paul McCartney in Hey Jude. Tutto viene messo al servizio dell’estro artistico di Freddie Mercury, l’unico in grado di destreggiarsi in quel dedalo di suoni e versi perché l’unico, forse, a conoscerne l’uscita. Quando Bohemian Raphsody viene conclusa, l’intento sperimentale già perseguito dal frontman in The March of the Black Queen raggiunge il suo acme: cinque sezioni principali, di cui un’intro corale, una ballata con assolo di chitarra, un passaggio d’opera, un proseguimento hard rock e una ballata conclusiva.
Freddie Mercury era riuscito a ideare una rapsodia moderna, un componimento epico impossibile da decifrare nel significato ma di immediata fruizione, un giallo trasportato in musica. L’interpretazione del brano rimane dibattuta, tanto che lo stesso Brian May, a tal proposito, ebbe a dire: “non credo lo sapremo mai, ma anche potendo non lo direi”. Ci sono senza dubbio le radici del cantante, la sua Zanzibar e lo Zoroastrismo praticato dalla famiglia, c’è “Galileo”, in onore della passione di May per l’astronomia, c’è il Corano rievocato in termini come “Bismillah” (“in nome di Allah”), c’è l’omosessualità, tanto stigmatizzata dal credo religioso dei suoi genitori (“Mama, I just killed a man”, in riferimento forse al Freddie più giovane) ma c’è soprattutto la consapevolezza che non arriveremo mai al senso ultimo dell’opera.
In un mare di dubbi amletici, Bohemian Rhapsody ci regala una sola certezza: in quasi sei minuti, i Queen mostrano tutta la loro grandiosità. Il problema, però, sono proprio quei 5 minuti e 55 secondi che, poco adeguati ai tempi di una radio, rischiano di sabotare la diffusione stessa del brano. Ecco allora che le case discografiche propongono di tagliarlo ma la band è categorica: “o i sei minuti o niente”. Nessuno sa cosa fare, finché Kenny Everett, disc jockey amico di Mercury, riesce a ottenere una copia del pezzo e, promettendo a Freddie che non lo avrebbe trasmesso in radio, finisce invece con il passarlo anche quattordici volte in due giorni. A quel punto l’errore commesso dalle case discografiche diventa evidente perché Bohemian Rhapsody inizia a risuonare nelle case, negli uffici e nelle automobili, accompagnando milioni di persone nella loro quotidianità.
A 43 anni dalla sua pubblicazione, la “rapsodia moderna” ideata da Mercury e compagni rimane non solo una roccaforte inespugnabile della musica rock ma soprattutto un inno intergenerazionale capace di unire padri e figli in un’unica voce. Se spesso a contribuire al successo di un brano è il mistero che avvolge la sua storia o quella del suo autore, Bohemian Rhapsody è forse uno dei rari casi in cui l’ambiguità del suo significato, che lascia intravedere, senza svelarla del tutto, la profondità dietro le note, non aggiunge nulla, se non in termini di fascinazione, al valore dell’opera stessa.