Il 18 luglio 1925 veniva pubblicato quello che il Times definì agli esordi la “Bibbia laica”, il Mein Kampf. Adolf Hitler, ancora lungi dal diventare il Führer sanguinario che la Storia avrebbe presto conosciuto, ma che già racchiudeva in sé i germi di un’ideologia totalitaria, antisemita e sanguinaria, lavorò all’opera già durante il suo periodo di prigionia nel carcere di Landsberg am Lech, dove fu rinchiuso a seguito del fallito Putsch di Monaco dell’8 e il 9 novembre 1923 che, nelle intenzioni del futuro cancelliere del Reich, sarebbe dovuto diventare un vero e proprio colpo di stato nazista.
Il Mein Kampf, come suggerisce il titolo stesso, è la “battaglia” di Hitler contro lo status quo, un’autobiografia che è un vero e proprio manifesto politico utile a far conoscere al mondo la dottrina del partito nazionalsocialista. Presentandosi come “Übermensch” (il Superuomo di nietzschiana memoria), l’austriaco rivela senza grosse reticenze tutta la sua avversione per il bolscevismo e l’ebraismo, da lui considerati i principali mali del mondo: da qui, la necessità impellente per la Germania di ricercare il proprio “spazio vitale” a Est, ai danni di popoli – Polonia e Cecoslovacchia su tutti – che, indegni e spregevoli, avrebbero dovuto soccombere di fronte alla superiorità e alla purezza della razza ariana. Ma non sono solo comunisti ed ebrei a trovarsi nel mirino del “Superuomo”: l’odio per le istituzioni parlamentari vigenti in Germania non viene affatto edulcorato nell’opera e anzi il politico tedesco si scaglia apertamente contro la democratica Repubblica di Weimar nonché con il fragile assetto parlamentare tedesco corrotto da ebrei e dall’SPD (i socialdemocratici). Scardinare l’assetto politico-istituzionale vigente è la conditio sine qua non per far rinascere il popolo tedesco, per far sorgere la pura e incontaminata razza ariana, investita della missione quasi mistica di dar vita a un nazionalismo sociale, impregnato di razzismo e populismo: le leggi razziali (o come lui stesso amava definirle, le “leggi a difesa della razza”), promulgate tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, sarebbero state un tragico esempio di come la finzione letteraria si fosse in poco tempo trasformata in realtà.
In Italia la fortuna del Mein Kampf si deve a Benito Mussolini, che lo fece stampare dalla casa editrice Bompiani nel 1934 grazie ai soldi provenienti dalle casse del Ministero degli Esteri. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, l’opera fu ristampata solo nel 1970, ben venticinque anni dopo la fine del conflitto, a cura della casa editrice Pegaso. Paesi come l’Austria e Israele hanno decretato illegale il possesso e la vendita del libro; in Cina, la sua consultazione è consentita solo in alcune – rare – biblioteche.
In tempi recenti si è assistito a un revival dell’opera tra quanti si (ri)scoprono sostenitori dell’ideologia nazionalsocialista (è recente la notizia di un autista della compagnia Flixbus tatuato sobriamente con la scritta “Mein Kampf”): non che prima mitomani, millantatori e visionari non esistessero ovviamente, ma sembrerebbe che il clima di questi ultimi tempi abbia dato nuova linfa vitale – e quasi una forma di legittimazione politica e sociale – a
un’ideologia (ma esistono ancora nel 2019 le ideologie?) sempre molto stigmatizzata in società democratiche e pluraliste, creando terreno fertile anche per nazisti “dell’ultima ora”: chissà che la politica nostrana non abbia la sua buona parte di responsabilità in questa riscoperta del macabro…