Per l’ultimo album di Lucio Corsi, prodotto dall’etichetta Sugar il 17 gennaio scorso, non ha molto senso scrivere una recensione ragionata. Non ha molto senso, cioè, descrivere e analizzare musiche e testi, assonanze e novità, di quella che è la compiuta espressione di una vera e propria poetica, che ha valore in quanto tale. Mancano le parole. Si può però provare a indovinare chi si nasconda dietro quella voce, quelle immagini evocate ed enigmatiche come le copertine dei video youtube del suo album precedente, «Bestiario musicale».
Chi è Lucio Corsi? Da dove gli viene quel tono di voce di chi racconta una fiaba e contemporaneamente asserisce frasi coraggiose? Guardandolo, fissandone il volto e il portamento, si ha come l’impressione che quel primo disco non era solo il volo di una libera immaginazione mitopoietica che dipingeva otto ritratti favolosi di animali della Maremma, ma anche una presentazione. Corsi è lui stesso «la lepre» del suo Bestiario, «è sia uomo che donna, città e campagna», e per questo vola sulla luna che ha due facce, «mentre la terra ne ha una, e a lei ne servono di più»; o è anche «la volpe», che cambia aspetto, o «l’upupa» che è «ponte» fra luce ed ombra.
La totale immersione di chi canta in quello che canta è evidente, e l’ultimo disco non fa altro che espandere quel mondo immaginario presentato dal Bestiario, e inserirvi anche gli uomini: l’«amico» che «col vento volava», la «ragazza trasparente», gli abitanti di «Trieste». Questa espansione dell’immaginario va a braccetto con un rimando interno fra le figure citate, così la canzone «Senza titolo» ha una funzione di raccordo, alludendo ad altre canzoni dei due dischi: dal «cinghiale» al «vento» di «Trieste» e dell’«amico» volante, al «treno», cioè alla «Freccia Bianca». Allusioni e citazioni che non fanno sistema, ma danno solo l’impressione di un grande disegno di frattali variopinti in cui i motivi ritornano in libere variazioni e dimensioni diverse.
Questo è quello che soffia nel vento della voce di Corsi, quello che ho sentito io: il «mistero in ogni giorno che comincia, dopo una notte che finisce», il mistero del mare, delle «onde che girano», delle conchiglie, del vento che canta, delle creature fantastiche, fra cui anche gli uomini, a cominciare dallo stesso Corsi. Il mistero per cui «nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi» perché «buttando nel vento il lavoro di anni» siamo spinti sempre oltre qualsiasi punto di arrivo, correndo indietro nel tempo fra città e campagna, musica e nuvole, oltre i «troppi muri dove sbattere la testa» e «sentirsi soli», oltre il calcolo e la razionalità.