Bandersnatch: oltre l’“oltre”

Il 28 dicembre 2018 è uscito su Netflix Bandersnatch, episodio anomalo della serie Black Mirror, che da due anni inquieta il pubblico della rete. Se ne parla molto, è il fenomeno del momento, e merita una riflessione.

Innanzitutto, sembra quasi che di questo film interattivo se ne sentisse il bisogno. Il folto popolo nerd che imperversa sulla rete, che è corso l’anno scorso a vedere al cinema Ready Player One, che anima il generale revival anni ’80 (le costosissime polaroid) è stato accontentato, soddisfatto, esaudito nelle sue preghiere, colpito al cuore da un prodotto concepito e realizzato espressamente per loro, dall’ambientazione (il 1984) alla struttura da videogame vintage. Insomma, Bandersnatch è quello che in gergo tecnico è definita una nerdata.

Ma andando oltre il comprensibile entusiasmo, ci si potrebbe interrogare sulla sua ragione più profonda, senza peraltro sperare di trovare subito risposte facili e accontentandosi della sola domanda: perché ci piace Bandersnatch?

[Da qui in poi vi saranno diversi riferimenti alla trama, o meglio alle trame, del film, ed è dunque opportuno tracciare la cosiddetta spoiler line].

————————————————–spoiler line——————————————————–

Vi è un meccanismo elementare che si ripete nel film, all’interno della storia e dal momento in cui la storia coinvolge, fisicamente, lo spettatore: l’andare oltre. Innanzitutto Stefan, il protagonista, si trova a confrontarsi con suo padre e con il suo passato segnato dalla morte della madre, a dover superare il lutto e a dover superare il padre, addirittura ucciderlo, in un classico complesso edipico.

Ma non solo: egli si sente “controllato”, e vuole vederci chiaro, proprio come Edipo. Di qui le sedute psicoanalitiche, i sogni-flashback, i viaggi di LSD, le teorie del complotto. Stefan fuoriesce da una realtà razionale.

E non finisce qua: in questo superamento Stefan coinvolge lo spettatore, perché è da noi che Stefan vuole scappare, siamo noi che lo controlliamo, materialmente. Così, Stefan diventa un personaggio che fuoriesce dalla storia.

E non finisce nemmeno qui: in una sequenza finale si arriva ancora oltre, e anche l’ideatrice del film che stiamo vedendo si trova controllata da noi contro la sua volontà. Meta-testualità allo stato puro.

È questo raffinato gioco logico della dialettica continua fra struttura e fuoriuscita che rende così coinvolgente Bandersnatch. Se non vi fosse la progressiva rottura della quarta parete già dall’interno, sarebbe semplicemente un film divertente in quanto interattivo, ma solo in modo unidirezionale: dallo spettatore al personaggio. Invece la vera genialità sta nel far detonare la storia dall’interno, con il rischio di farla implodere.

Il rischio è infatti che l’empatia sia interrotta, che infrangendo il patto non scritto fra spettatore e spettacolo riguardo la finzione che li separa, si rompa anche l’identificazione e la vicinanza affettiva nei confronti dei personaggi. Insomma, di Stefan alla fine del film ci importa davvero?

È qui che occorre ancora riflettere: il bellissimo giocattolo che abbiamo davanti è una nuova frontiera dell’arte visuale e anche della narrazione in generale, oppure si tratta solo un esperimento, un episodio di una serie, Black Mirror, che non prevede continuità fra le sue puntate? Se ci piace così tanto uno spettacolo che supera lo spettacolo, e quindi che si supera, si è forse arrivati in un epoca di superamento del cinema narrativo? Siamo forse stanchi di sentir raccontare una storia, di entrare in una storia, e vogliamo sempre e solo uscirne fuori, fuggirne?

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