IL B(L)ACKSTAGE DI DIANE ARBUS E DI AMY WINEHOUSE. Due artiste a confronto

L’arte non è che una macchia di sangue tradotta in un fregio d’oro. Per avere abbastanza sangue da trasformare, però, occorre trovare una ferita: più profonda e nascosta è, più puro sarà l’oro che se ne ricaverà. Lo testimoniano le vicende di due artiste diverse, che pure parecchio hanno in comune, la fotografa statunitense Diane Arbus (New York, 1923-1971) e la cantante britannica Amy Winehouse (Londra, 1983-2011), delle quali, proprio in questo luglio 2021 (a distanza di pochi giorni), si celebreranno, rispettivamente, il cinquantesimo e il decimo anniversario dalla scomparsa.

Diane Nemerov nasce, nel 1923, a New York, da una benestante famiglia di origini russo-ebraiche, e cresce nell’artefatto ambiente dell’alta borghesia americana, senza mai sentirsi parte di esso. Frequenta la “Ethical Culture School” e, nel 1940, si diploma alla “Fieldstone School”. Interessata fin da bambina alle arti visive, si avvicina al disegno e alla pittura e avvia il proprio percorso creativo, seguendo le orme tracciate da Francisco Goya, Paul Klee e George Grosz. Nel 1941, appena diciottenne, sposa Allan Arbus, con il quale condivide una passione per la fotografia, destinata a crescere e svilupparsi fino a diventare un vero e proprio mestiere, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, con l’apertura dello studio “Diane&Allan Arbus”. Fra la seconda metà degli anni ’40 e il decennio successivo, Diane segue corsi di fotografia con Berenice Abbott, Aleksej Česlavovič Brodovič e Lisette Model, rivelandosi, oltre che un’ottima assistente per il marito, una promettente e originale professionista. I loro lavori, da subito apprezzati, cominciano in quegli anni ad essere pubblicati su prestigiose riviste, quali “Glamour”, “Vogue” e “Seventeen”, e ad essere richiesti da varie agenzie pubblicitarie. Diane, in forte contraddizione con il mondo superficiale e sofisticato che è pagata per immortalare, si mostra al pubblico sempre più semplice e sciatta, consapevole di appartenere all’altro lato della società, quello che nessuno guarda né racconta. Dal 1956, abbandona la moda e lo studio di Allan (dal quale si separerà nel ’58 e divorzierà nel ’69, pur conservandone il cognome) e inizia a lavorare da sola, ritraendo proprio quei soggetti alternativi ed emarginati nei quali ritrova la parte più autentica di sé, per portare finalmente alla luce la diversità, l’orrore, il dolore. Il suo linguaggio è aggressivo, caratterizzato da netti contrasti e un uso ossessivo del flash, che mostrano, senza filtri, la cruda realtà delle periferie newyorkesi e dei suoi luoghi pubblici più noti: le spiagge di Coney Island, Central Park, Times Square, l’Hubert’s Dime Museum e il Circo delle Pulci, le balere di Harlem e le parate in strada. Grazie a Marvin Israel, allora direttore dell’“Harper’s Bazaar”, nonché suo consigliere, sostenitore e amante, si accosta al lavoro del fotografo tedesco August Sander (1876-1964), che la guida verso una significativa svolta. Infatti, così come Sander si era dedicato alla documentazione del popolo tedesco, Diane decide di incentrare la propria ricerca su una sorta di indagine antropologica dei newyorkesi e, in particolare, dei Freaks (dall’omonimo film di Tom Browing del 1932), ovvero dei soggetti più bizzarri e inquietanti scovati nelle pieghe più nascoste della Grande Mela: clown, artisti di strada, transessuali, nudisti, nani, giganti e gemelli identici (come le celeberrime Colleen e

Cathleen Wade, fotografate nel 1967, alle quali si ispirò, circa un decennio più tardi, Stanley Kubrick per la trasposizione cinematografica del romanzo The Shining di Stephen King). Con le prime importanti commissioni, per l’“Esquire” (The Vertical Journey, 1960) e per l’“Harper’s Bazaar” (The full circle, 1961), Diane ottiene un crescente successo, testimoniato da ben due borse di studio della Guggenheim (nel ’63 e nel ’66), da numerosi progetti di raccolte fotografiche, tra cui The interior landscape (1965), e di stimolanti attività presso la “Parson School of Design” e dall’allestimento della sua prima mostra personale al MOMA (New Documents, 1967). Un successo che, tuttavia, non basta a proteggerla da pesanti crisi depressive, che la portano all’uso (e all’abuso) di antidepressivi e sostanze stupefacenti. Nel 1967, il “New York Magazine” le commissiona un servizio su Viva, una delle superstar della Factory di Andy Warhol, un sogno che volge ben presto in incubo, quando, indignati, gli inserzionisti faranno rimuovere le pubblicità dal giornale, con un danno stimato di circa un milione di dollari. L’astro della Arbus comincia da questo momento ad oscurarsi. Ricoverata per epatite, è costretta ad interrompere gli psicofarmaci e a fronteggiare violenti crolli emotivi. Nel 1969, ottiene i permessi per fotografare gli interni delle strutture psichiatriche del New Jersey (il lavoro, rimasto Untitled, sarà raccolto e pubblicato postumo nel 1995). Nel 1970, riceve il premio “Robert Leavitt” della American Society of Magazine Photographers. L’anno seguente tiene un corso trimestrale alla “Westbeth Academy”, continua a lavorare su commissione e ad organizzare mostre e convegni e riceve l’invito alla Biennale di Venezia per il 1972, ma non sempre i progetti vanno in porto. Nella notte tra il 26 e il 27 luglio, si toglie la vita ingerendo barbiturici e tagliandosi i polsi con un rasoio. Ha scritto “Ultima Cena” nel suo diario e lasciato il suo libro di appuntamenti sulle scale che conducono alla toilette. Marvin Israel troverà il suo corpo nella vasca da bagno due giorni dopo.

Amy Jade Winehouse nasce a Enfield (Londra), nel 1983, da una famiglia di origine russo-ebraica. Fonda, a soli dieci anni, un gruppo rap amatoriale, ispirato ai Salt’n’Pepa e chiamato Sweet’n’Sour, con l’intento di rivendicare attraverso la musica le proprie radici etniche. Espulsa, a causa del proprio temperamento ribelle e di un piercing al naso che si era fatta da sola (a tredici anni), dalla “Sylvia Young Theatre School”, frequenta la “Brit School” di Selhurst (Croydon) e intraprende, appena adolescente, la carriera musicale. Scoperta dall’ideatore di “Pop Idol” Simon Fuller, infatti, ottiene un contratto discografico con l’Island Records e, nel 2003, pubblica il suo primo album, Frank. Prodotto da Salaam Remi, l’album viene ben accolto dalla critica, per le vaghe e sofisticate atmosfere jazz e soul e per il timbro scuro e maturo di Amy, per molti già paragonabile a quelli delle più grandi star del genere, Sarah Vaughan e Macy Gray, e dal pubblico, come dimostrano gli oltre due milioni di copie vendute. Tuttavia, Amy, non completamente soddisfatta, a causa delle ingerenze dell’etichetta sulla registrazione delle sue canzoni, decide di concedersi una pausa, durante la quale continua a far parlare di sé, offrendo al mondo una fitta serie di scandali ed eccessi, legati soprattutto alla sua dipendenza da droghe e alcol e alle sempre più frequenti crisi depressive, che, in breve tempo, lasciano evidenti e inequivocabili segni sul suo corpo. Torna in pubblico, alla fine del 2006, con quattro taglie in meno e un nuovo disco, Back to black, prodotto da Salaam Remi e Mark Ronson. Con il secondo album, pluripremiato ai Grammy Awards nel 2008 (“Registrazione dell’anno”, “Canzone dell’anno”, “Miglior nuovo artista”,“Miglio Album Pop” e “Miglior Performance Pop femminile”), il processo di scissione tra la carriera artistica, in vertiginosa ascesa, e la vita privata, pericolosamente sospesa nel vuoto e trascinata verso il basso, giunge a compimento. Ne sono la prova i brani più acclamati, Rehab, dedicato al suo malato ma irrinunciabile rapporto con l’alcol, e la tetra title track, Back to black, accompagnata da un videoclip in bianco e nero che mette in scena un funerale, quello del suo cuore, stroncato dalla fine di una storia d’amore, al quale assiste dall’esterno, quasi non la riguardasse: una profezia di ciò che, di lì a poco, sarebbe successo. Infatti, il matrimonio con Blake Fielder-Civil, celebrato nel maggio 2007, si rivela molto presto tossico e fondato unicamente sulla condivisione di trasgressioni e dipendenze, che la portano, nell’ottobre dello stesso anno, all’arresto, in Norvegia, per possesso di marijuana, e ad imbarazzanti apparizioni pubbliche, come quella in occasione degli MTV Europe Music Awards, che la vede salire sul palco in apparente stato confusionale, incapace di ringraziare i fan per il premio “Artist Choice Award”, e non-esibizioni, nel corso delle quali fuma crack o non è abbastanza lucida per stare in piedi e cantare. La relazione si chiude, nell’agosto 2009, lasciandola sola con ombre, di cui ormai tutti sanno, molti parlano e alcuni scrivono, talvolta con troppa leggerezza e poco tatto, su testate nazionali: l’alcol, la droga, i disturbi alimentari, l’autolesionismo e le crisi psicotiche. Soltanto verso la fine del 2010, anche su consiglio del chitarrista dei Rolling Stones, Keith Richards, decide di fare un po’ di “pulizia”, dando più spazio alla musica, alle attività filantropiche e alla famiglia (chiede e ottiene il consenso per l’adozione di una bambina caraibica, che purtroppo non farà in tempo a incontrare). Nel novembre 2010, annuncia un suo ritorno sulle scene musicali, con un terzo album, Lionness: Hidden Treasures (che uscirà postumo, nel dicembre 2011) e un tour tra Sud America ed Europa. Purtroppo, però, il 18 giugno 2011, a Belgrado, inaugura il tour europeo, visibilmente sbronza e fatta, deludendo un pubblico che a lungo aveva sognato di applaudirla dal vivo. La Winehouse accuserà le guardie del corpo di averla costretta a salire sul palco e di averle impedito di scendere e, di lì a poco, l’intero tour verrà annullato. Ad aggravare la situazione, la denuncia per stalking ai danni dell’ex marito, sporta contro di lei dalla nuova compagna di lui. Il 23 luglio 2011, Amy Winehouse viene trovata morta nel proprio letto. L’autopsia non riuscirà a chiarire le cause del suo decesso, ma l’ipotesi più probabile resta quella dello shock da “stop and go”, ovvero dovuto all’assunzione di una eccessiva dose di alcol dopo un lungo periodo di astinenza.

Al di là delle medesime radici etnico-religiose, di simili esperienze di divorzio, depressione e tossico-dipendenza, delle tragiche circostanze della prematura scomparsa, ciò che le vicende biografiche ed artistiche della Arbus e della Winehouse condividono e trasmettono è la straordinaria sinergia tra urgenza comunicativa e talento espressivo, che soltanto la loro forza ed onestà nel saper osservare e voler mostrare le proprie più dolenti ferite ha tradotto in un’arte senza tempo. Se gli scatti di Diane e le canzoni di Amy hanno ancora qualcosa da dirci, è perché sono fatti di verità. Gli artisti più “veri”, salendo sul palco, puntano i riflettori sull’angolo più buio delle quinte, quello in cui affrontano i propri demoni, ma dal quale, spesso, non c’è nessuno che riesca a tirarli fuori.

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