La notizia di un nuovo focolaio di Covid-19 a Pechino ha rappresentato un colpo terribile per l’immagine del Governo cinese. Se è vero infatti che tutto ha avuto inizio a Wuhan, è altrettanto vero che le misure draconiane imposte dalle autorità sono state presentate come la risposta più dura ed efficace all’emergenza sanitaria. Ricordiamo che la Cina, in prima battuta, e poi l’OMS, sono state accusate dal Presidente Trump di avere causato la pandemia, di averne nascosto la reale portata, di aver lasciato il resto del mondo in balia del nuovo coronavirus. La risposta cinese non si è fatta attendere, assumendo la forma di una strategia basata su due capisaldi: a) l’assenza di prove concrete che dimostrino che il Paese abbia mentito alla Comunità internazionale; b) la forza d’urto delle misure adottate che hanno azzerato contagi e decessi nel focolaio zero. A distanza di pochi mesi, l’incubo maggiore del Presidente Xi Jinping sembra essere diventato realtà, con un nuovo focolaio nella Capitale, ovvero nel cuore del suo potere politico, e di nuovo in un mercato alimentare. L’indice è stato puntato immediatamente contro il salmone di importazione norvegese, sebbene la Norvegia abbia smentito qualsiasi responsabilità e sebbene la comunità scientifica consideri improbabile che pesce congelato e trasportato da un capo all’altro del pianeta possa costituire vettore di contagio. D’altra parte, i mercati asiatici, ed in particolare i cosiddetti wet market, sono da sempre al centro delle polemiche per la presenza di specie animali non convenzionali, per la scarsa igiene, per il sovraffollamento, quindi una combinazione di fattori propizia al verificarsi del fenomeno dello spillover (zoonosi), cioè il passaggio dei virus da una specie all’altra e infine all’uomo. Gli attivisti di Animal Equality hanno sostenuto che i wet market sono “un vero inferno per gli animali che vivono in condizioni allucinanti le loro ultime ore di vita in attesa di essere squartati e macellati, ammassati uno sull’altro nella sporcizia più totale.” Fatto sta che il contagio, partito nel mercato di Xinfadi (in foto), si è esteso così tanto e così rapidamente che, nel giro di pochi giorni, trenta quartieri della megalopoli da 21 milioni di abitanti sono stati chiusi, tutti i voli per e da Pechino cancellati, scuole e università anch’esse chiuse. Insomma, a Pechino è stato utilizzato il metodo Wuhan. Le autorità, che in un primo momento si erano dette molte preoccupate, hanno già cambiato linea per bocca del principale virologo cinese, il dottor Wu Zunyou, il quale ha detto che l’epidemia è sotto controllo e che il nuovo focolaio “non ci ha colto impreparati, ma è stata una sorpresa perché è capitato ancora una volta in un mercato. Le autorità hanno individuato il focolaio e reciso i contatti.” Verrebbe da dire tutto bene quello che finisce bene. Eppure, la cautela non è mai troppa anche perché in Cina è molto diffuso l’ottimismo della volontà. Le radici maoiste del Partito Comunista connotano il regime sin dai suoi esordi, come ha scritto il grande storico inglese Eric J. Hobsbawn: “la fiducia nella capacità delle trasformazioni attuate con la forza della volontà riposava su una specifica fiducia maoista nel popolo, concepito come un’entità pronta a lasciarsi trasformare e quindi a partecipare, con spirito creativo e con tutta l’intelligenza e l’ingegnosità della tradizione cinese, alla grande marcia in avanti”. Non è dunque un caso che, nei giorni più bui della pandemia nei Paesi Occidentali, i media cinesi insistessero sulla incapacità delle democrazie liberali nel fornire risposte adeguate ad una emergenza che il Paese del Grande Dragone era riuscito a dominare e infine a sconfiggere. Dietro la propaganda e la guerra dei simboli è facile intravedere lo scontro, sempre in atto, per la supremazia mondiale da strappare agli Stati Uniti. Il nuovo Grande Timoniere, Xi Jinping, sembra condividere di Mao anche la convinzione che la rivoluzione e il comunismo possano “essere salvati dalla degenerazione nella stasi solo mediante una lotta costantemente rinnovata”, volendo riprendere ancora le parole di Hobsbawn. L’immagine quasi divina del Presidente, che incarna il regime, il Partito e tutte le sue diramazioni, centrali e periferiche, ma anche una sorta di brand ad uso interno ed internazionale, costruito sulla durezza e sulla efficacia delle risposte adottate, rischia di crollare sotto l’effetto combinato di una seconda ondata (che auspichiamo non si verifichi) e di una crisi economica e sociale dagli esiti del tutto imprevedibili.
Foto tratta dal sito web ilbolive.unipd.it