Adottando una prospettiva storica che s’insinua nelle perturbanti biografie dei fondatori della psicoanalisi, Luciano Mecacci, già psicologo e professore ordinario di psicologia generale presso l’Università degli Studi di Firenze, intende offrire un diverso quadro d’insieme di uno dei più importanti movimenti culturali contemporanei. Volendo promuovere una riflessione articolata, all’interno della quale lo scontato non debba dirsi (troppo) tale, l’autore si allinea alla definizione di psicoanalisi come trattamento.
La mente altro non è che un apparato che costruisce pensieri, ma psiche e coscienza non vanno l’un l’altra ( meramente) a sovrapporsi*.
Siamo molto di più di quello che pensiamo di essere, o temiamo, anche, di dover scoprire di essere.
Il trattamento psicoanalitico non garantisce però una guarigione stricto sensu, piuttosto veicola una consapevolezza, maggiore, di limiti e virtù, soprattutto promuove la comprensione di una nostra peculiare modalità relazionale, già disegnata nei e dai rapporti con altri significativi fin dagli albori della vita mentale.
All’epoca di Freud, morto esule a Londra nel 1938, l’esercizio professionale non sembrava vincolato al rispetto ossequioso di un codice deontologico**.
E’ quanto in questo testo non manca, poi, di rilevare lo stesso autore, citando anche un caso eccellente, quello di Marilyn Monroe, ed i frequenti, forse
sconcertanti, casi di agiti *** di coloro che l’hanno avuta in cura.
Siamo in America, circa negli anni cinquanta.
Il ruolo pubblico del professionista, che ha in onere il curare, pare fondersi talvolta con una funzione del tutto privata, un farsi amichevole di eccessiva contiguità, con conseguente violazione dei confini sanciti in un trattamento terapeutico per così dire ortodosso.
Vero è che nelle costellazioni scientifiche esistono i padri, ma anche i figli e pur anco gli stessi nipoti, e le cose, dunque, mutano.
Per l’autore però l’analista diventa testimone del dolore nel paziente, è custode del setting e promuove un’alleanza terapeutica dentro la relazione di cura.
E’ forse un invito, ulteriore, a fare attenzione a non peccare di complicità eccessiva?
A chi rende conto l’analista e, soprattutto, come risponde di eventuali errori in corso d’opera?
Esiste una forma di riparazione possibile?
O, più semplicemente, esercitando qualunque professione s’ incorre nel rischio di sbagliare ed è questo un fatto di per sé ineliminabile della natura umana?
Ne disvelava più compiutamente il senso Anna Freud, scrivendo al dottor Greenson pochi mesi dopo la morte di Marilyn avvenuta ad agosto 1962.
La figlia di Freud aveva già conosciuto e curato la l’attrice a Londra, nel 1957, durante le riprese del film Il Principe e la ballerina. I contrasti, aperti, che animavano la relazione fra i due protagonisti principali, Marilyn Monroe e Laurence Olivier, che del film era anche regista, rischiavano di bloccare le scene stesse.
Al dottor Greenson, ultimo degli analisti che ebbe in cura la Monroe, la Freud dichiarò di essere “tremendamente addolorata per Marilyn”.
“Uno s’interroga sempre per capire dove avrebbe potuto fare meglio e una cosa del genere lascia un tremendo senso di sconfitta (…) siamo davvero sconfitti da qualcosa che è più forte di noi e per il quale l’analisi con tutti i suoi poteri è un ‘arma troppo debole”.
Discorso onesto, che lascia, forse, sullo sfondo le diatribe teoriche, le appartenenze, anche eventuali sudditanze di cui si pare si sia foraggiata una certa cultura del far cultura analitico.
Bettelheim, che Mecacci cita amabilmente, conclude appellandosi nel profondo ad una saggezza resa sapientemente responsiva.
“La differenza fra un paziente ed un terapista consiste nel fatto che il terapista può percorrere il ponte a suo piacimento in entrambi i sensi. Egli sa in qualsiasi
momento fino a che punto può spingersi con sicurezza nel mondo caotico che si estende al di là del fiume che separa la ragione dalla follia, così come sa quando è il momento di affrettarsi a ritornare da quel territorio estraneo nel mondo della ragione”.
Forse per questo l’autore, nel commento finale, insinua il malcelato sospetto che alcuni grandi protagonisti della storia della psicoanalisi, a furia di correre avanti ed indietro lungo quel ponte gettato sull’inferno, ad un certo punto possano essersi, invece, “smarriti dentro se stessi”.
Riferimenti bibliografici
*S.Freud, L’ interpretazione dei sogni, Milano, Einaudi ,2014
**La nascita in Italia, quasi alla fine del Novecento, della legge 56/89(poi aggiornata nel marzo 2008) istituiva la figura dello psicologo invocando nell’esercizio della professione il rispetto del codice deontologico, uno dei primi doveri del professionista nei confronti dell’utenza.
***agito ovvero passaggio all’atto spesso mutuato dall’inglese acting-out.
Luciano Mecacci, Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi, Bari-Roma, Laterza, 2000
Detlef Berthelsen, Vita quotidiana in casa Freud, Ed.Garzanti, Milano, 1990