Da dietro delle sbarre, il cielo non sembra infinito.

Ci sedemmo dalla parte del torto……perché questo è stato il posto assegnatoci da una legge che ci ha visti solo come figli di detenuti e non come essere umani liberi e detentori di determinati diritti.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano già stati occupati da bambini che, diversamente da noi, avevano tutte quelle possibilità a noi negateci.

Ci sedemmo dalla parte del torto e allo stesso modo facciamo anche oggi, perché siamo cresciuti così, senza un’identità e con pochissime buone prospettive davanti, incapaci di saper distinguere il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

A questi tipi di pensieri e a queste parole perverranno nel tempo tutti quei bambini che, rinchiusi nelle carceri insieme alle loro madri, non hanno potuto in qualche modo beneficiare dell’articolo 3 della convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che l’Italia ha ratificato il 27 maggio 1991 con la legge n° 176. Un articolo che sancisce il principio del superiore interesse del minore, rispetto agli altri, disponendo che in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino/adolescente deve avere una considerazione preminente, al fine di salvaguardarlo nella sua fragilità e vulnerabilità.

E se la legge questo sancisce, non da meno sembrano comportarsi le scienze sociali e psicologiche, che al riguardo confermano quanto siano delicati e di vitale importanza i primissimi anni di vita, sotto il punto di vista fisico, psichico, interattivo, morale ed etico. Tutti elementi strutturali ritenuti portanti per quella che deve considerarsi come la formazione di un’identità sana e pro-attiva, capace di far ben inserire ogni individuo nel tessuto sociale di riferimento. Chi in tenera età è stato costretto a vivere situazioni di disagio, in un clima avverso, ha sicuramente una propensione maggiore, rispetto ad altri, a commettere azioni illecite reiterando tutto quel mondo che lui ha vissuto sulla sua pelle e respirato tra le mura carcerarie.

Diviene dunque obbligatorio chiedersi, date queste premesse, quali ripercussioni e danni psicofisici, può generare, in un piccolo individuo, la mancata possibilità di vivere liberamente?

Può davvero la colpa di un genitore ricadere così impunemente sul proprio figlio, segnandolo e condannandolo ad una vita che non gli pertiene?. Una domanda consona questa, da porsi sempre all’interno di ogni legame e rapporto genitori-figli, che nella sua complessa essenza risulta perennemente controverso, ma in questo contesto lo è più profondamente ed intensamente per la presenza di una legge che, non recide il “legame parentale deviante”, permettendo di poter tenere, alle madri in stato detentivo, i propri figli al loro fianco. Una legge quanto mai fredda ed austera, che con grande onestà intellettiva mi chiedo, perché incapace a pieno di comprenderla, chi o cosa voglia realmente tutelare attraverso essa: i legami familiari?; l’egoismo individuale?; la sicurezza pubblica? o semplicemente i circuiti socio-istituzionali che devono farsene carico?

Secondo i dati del Ministero della Giustizia, attualmente in Italia ci sono 24 bambini che vivono insieme alle loro 21 madri detenute, alcuni all’interno degli Icam (istituti a custodia attenuata per detenute madri), ed altri all’interno delle carceri. Realtà che differiscono da regione a regione, perché gli Icam sono presenti solo in alcune di esse: Torino, Milano, Venezia, Cagliari e Napoli (Avellino). Sono strutture detentive ideate e realizzate per ospitare i minori con le loro madri, molto più simile ad una casa piuttosto che ad un carcere, con guardie che non indossano le divise, e soprattutto con operatori specializzati, qualificati nel supportare ed aiutare sia le detenute che i loro figli. Pur applicando queste accortezze, l’Icam resta comunque un edificio con sbarre alle finestre, cancelli e porte blindate agli ingressi, dove servono appositi permessi per entrare ed uscire.

Infatti, l’Icam è stato considerato, in un quadro legislativo prospettico, un punto di passaggio, non certo un punto di approdo, in quel percorso riformativo che da anni sta cercando di modificare il senso culturale della carcerazione, da volersi considerare maggiormente per i suoi aspetti riabilitativi e reintegrativi, piuttosto che per quelli solo punitivi.

Percorso legislativo

Della questione delle madri in carcere lo stato Italiano se ne è cominciato ad interessare nel 1975 attraverso la legge 345, decretando che i bambini per poter beneficiare delle cure materne, e in mancanza di alternative, potevano vivere insieme in cella, fino al compimento del terzo anno di vita. Nel 1976 poi, opportune ed adeguate figure professionali, come pediatri, ginecologi, ostetriche e soprattutto assistenti d’infanzia, hanno cominciato a varcare gli istituti penitenziari, implementando al loro interno quei giusti supporti che rendevano la detenzione più sicura e meno pesante. Dopo una serie di passaggi legislativi avutesi negli ultimi decenni, sempre mirati a cercare di poter venire incontro al minore impossibilitato a vivere una vita normale come tutti i suoi coetanei, la vera svolta si è avuta nel 2011 con la legge 62, che ha istituito le case famiglie protette facendo uscire fisicamente i bambini dall’ambiente carcerario ma nello stesso tempo allungandone la restrizione, portando, infatti, a sei l’età massima per poter rimanere negli Icam (dieci anni se la pena del genitore è definitiva), a fronte dei tre anni previsti dalle leggi precedenti. Quasi un gioco a somma zero, dove a perdere sembra essere sempre la libertà dei più piccoli, che nascendo hanno quasi alleviato ed attenuato le colpe e le relative restrizioni della madre, precludendosi automaticamente ogni diritto e garanzia per loro stessi.

La scelta, se così la si può definire, di tenere i loro piccoli con sé è fatta da tutte quelle donne che non hanno alternative e che versano in una condizione di difficoltà economica, sociale e culturale fortemente gravosa, che nel caso specifico poi dell’Italia spesso è correlata a donne straniere e Rom. Una delicata questione che apre i soliti i luoghi comuni, che tendono a stereotipare, perdendo di vista il fulcro della questione che dovrebbe rimanere sempre centrata e focalizzata sui bambini, qualunque sia la loro etnia di provenienza.

Per fortuna la sensibilità verso certe tematiche, non lascia tutti indifferenti e la “Legge Siani” ne è una chiara dimostrazione in tal senso, la quale in quest’ultimo periodo si è battuta schierandosi dalla parte dei “piccoli detenuti” in alcun modo colpevoli di nulla, cercando di tirarli fuori dalle carceri per farli vivere all’interno di case famiglie protette. Il testo decreta che la detenzione da parte di madri imputate o condannate con al seguito bambini piccoli non debba essere scontata in carcere, ma piuttosto o ai domiciliari o in “case famiglia protette”. Una possibilità, quest’ultima, già prevista dall’ordinamento attuale, ma completamente lasciata alla discrezionalità del giudice, e che nel nuovo disegno di legge vorrebbe essere rimossa. L’obbligo di scontare la pena al domicilio si applica anche ai padri con figli minori di 10 anni, ma solo nel caso in cui la madre sia deceduta o «assolutamente impossibilitata a dare assistenza ai figli».

Nei casi di reiterazione o di pericolosità della detenuta, la pena è pensata da scontarsi negli Istituti a custodia attenuata (Icam). Si tratta di strutture detentive molto più simile ad una casa piuttosto che ad un carcere, senza sbarre, ma con altri sistemi di sicurezza, con guardie che non indossano le divise, e soprattutto con operatori specializzati che possono aiutare sia le detenute che i loro figli.

Un disegno di legge che oltre a mostrare un grande senso di civiltà, progresso e umanità di cui ogni società moderna dovrebbe oggi sapersi far portatrice, invita sempre a non generalizzare e a trattare ogni caso singolarmente, per cercare sempre delle soluzioni ad hoc costantemente a favore dell’interesse dei minori.

La legge Siani, approvata alla camera nel maggio scorso 2022 con 241 voti favorevoli e soltanto 7 contrari ( votanti 248 – astenuti 2 – contrari 7) rimasta in questi mesi bloccata al senato, riprende impulso con la

legge Serracchiani che rincalza sulla volontarietà di “ tutelare il rapporto tra detenute madri e figli minori” il cui testo è però stato bloccato, da una serie di emendamenti lo scorso 8 marzo.

Un duro colpo che ha fermato di netto il processo d’intervento sulla tutela dei bambini in detenzione accanto alle proprie mamme, non permettendo, a chi di dovuto, di poter intervenire efficientemente ed efficacemente sulla salute mentale e fisica dei minori. A nulla ha portato neanche la reportistica avanzata dal presedente dell’associazione “A Roma insieme”, Giovanni Longo, che organizza attività presso il nido della Casa Circondariale di Rebibbia, e nella quale vengono presentate le varie difficoltà che questi bambini riportano nel corso del tempo. Le loro capacità motorie sono notevolmente ridotte, visto l’elevato quantitativo di ore che passano fermi all’interno della cella. Come ridotta, è anche la loro curiosità e capacità esplorativa-conoscitiva, che gli angusti spazi, privi di colore e di calore non riescono ad attivare alla stessa stregua degli amichetti o di un parco giochi. E a causa delle bassissime possibilità di interazione e di comunicazione il loro lessico è ridotto ad un esiguo quantitativo di termini, spesso circoscritto a parole chiave come: apri, chiudi e guardia. Molti i casi in cui si vengono a sviluppare degli importanti disturbi e ritardi di apprendimento, che nei casi estremi, si trasformano in veri e propri disagi psichici che richiedono l’intervento di neuropsichiatri. Tutte problematiche che potrebbero essere evitate a monte, se solo una legge potesse adeguatamente intervenire a prevenzione, e non come spesso accade, a risoluzione di problematiche già evidenti e acclarate.

Related Posts

di
Previous Post Next Post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

0 shares