Il 26 dicembre del 1869 andava in scena per la prima volta al Bol’šoi di Mosca il Don Chisciotte – balletto ispirato all’omonimo romanzo di Miguel de Cervantes – su musiche di Ludwig Minkus e libretto e coreografia di Marius Petipa, il quale già un paio d’anni dopo avrebbe apposto drastici cambiamenti alla sua prima versione, e così avrebbero fatto anche molti altri, tra i quali ricordiamo Gorskij (sempre per il Bol’šoi, nel 1900), Nureyev e Balanchine negli anni Sessanta, Baryšnikov (da Petipa e Gorskij) nel 1978 per l’American Ballet Theatre.
Proprio alla versione del ballerino lettone si ispira il Don Chisciotte di Laurent Hilaire (da Gillian Whittingham), che dal 18 al 31 dicembre torna in scena al Teatro dell’Opera di Roma.
Il Don Chisciotte è divertente, per certi versi giocoso, colorato ed esplosivo, tanto nelle singole variazioni quanto nella generale atmosfera, concitata ed energica; è un racconto da seguire con lo stesso spirito col quale da bambini, col naso all’in su, ci si immergeva nelle infinite peripezie dei protagonisti delle favole, condividendone le avventure ma senza correrne i pericoli, fuggendo con loro come incantati fino a che non finisce la storia.
Il tradizionale villaggio spagnolo, che di per sé suggeriva un altrove non completamente realistico, un luogo inventato come quelli che la nostra mente immagina quando si perde tra le pagine di un libro, diventa in questa versione un libro per bambini, uno spettacolo di burattini che sfugge al controllo della fantasia – non diversamente da come fanno i due protagonisti, Kitri e Basilio – e pervade l’intero balletto, animandolo di un entusiasmo puerile.
Senza rendersene conto ci si trova catturati da una realtà che vera non è, trascinati da una storia – come del resto era successo all’hidalgo di Cervantes, completamente perso negli amati romanzi cavallereschi – visibile e udibile, che è per noi reale fin tanto che la vediamo rappresentata di fronte ai nostri occhi.