È Santa Teresa d’Avila la figura attorno alla quale ruota ‘Estasi’, la mostra che, dal 18 settembre scorso, Marina Abramović ha portato a Napoli, all’interno di Castel dell’Ovo, il castello più antico della città, tra i simboli più affascinanti del capoluogo campano nel mondo. L’artista, madre della performance art, ha un rapporto di lunga data col capoluogo partenopeo; già 46 anni fa, infatti, vi tenne la storica performance ‘Rhytm 0’, presso la Galleria Studio Morra. Anche la nuova esposizione, che si presenta profondamente diversa, è destinata ad emozionare e sorprendere il pubblico, così come la precedente. “L’Italia ha dimostrato grande coraggio e un profondo senso di comunità e umanità. Italia ti amo e il mio cuore è con te”, ha detto l’artista per sostenere il nostro paese nella sfida della ripresa post virus.
La performance, allestita nella Sala delle Carceri adibita nel tempo a galera del castello, è composta dal ciclo di video denominato ‘The Kitchen. Homage to Saint Therese’, un’opera molto significativa nella quale Marina Abramović si relaziona con Santa Teresa d’Avila, fondatrice dell’Ordine delle Carmelitane. Ricordata dalla Chiesa Cattolica come tra le sante più spirituali, ella raggiungeva l’unione mistica con Gesù attraverso l’estasi. Ed è questo l’elemento che l’artista serba ha deciso di rappresentare, proprio come fece Gian Lorenzo Bernini con la scultura L’estasi di Santa Teresa, tra le opere più scenografiche dell’arte italiana, realizzata tra il 1647 ed il 1653 all’interno della Cappella Cornaro, nella Chiesa carmelitana di Santa Maria delle Vittorie a Roma, che è dedicata appunto alla santa spagnola.
L’opera si compone di tre maxi video, che documentano altrettante performance tenute nel 2009 dall’artista nell’ex convento di La Laboral a Gijón, in Spagna. L’esposizione, unita al luogo e agli spettacolari allestimenti realizzati, contribuiscono a rendere incredibile l’esperienza approdata nella città partenopea.
“Nonna dell’arte performativa”, come lei stessa si è definita, l’artista serba nacque nel 1946 e, in quasi 50 anni di carriera, ha realizzato opere che hanno sempre suscitato forti reazioni del pubblico: dall’autolesionismo alla scoperta dei limiti della mente. Le sue esibizioni, spesso giudicate estreme, evidenziano diverse sfumature dei concetti di arte, coniugando rappresentazione e spettacolo e mettendo al centro il rapporto con gli osservatori.
L’artista di Belgrado naturalizzata statunitense, è nipote di un patriarca della chiesa ortodossa serba, successivamente proclamato santo. I genitori sono stati entrambi partigiani durante la seconda guerra mondiale. Il suo primo contatto con l’arte avviene a 14 anni, quando un amico del padre la coinvolge in una performance in cui taglia una tela e poi vi getta sopra materiali di diverso tipo, prima di farla esplodere.
Dal 1965 al 1972 studia all’Accademia di Belle Arti di Belgrado. L’anno successivo, il 1973, è la data della sua prima performance, intitolata ‘Rhytm 10’. Durante l’esibizione, Marina, utilizzando due registratori e 20 coltelli, pianta le lame tra le dita aperte della propria mano. Ogni volta che si taglia, passa al coltello successivo con l’intento, riascoltando la registrazione, di ripetere gli stessi gesti e gli stessi errori, dimostrando il mescolarsi del presente con il passato.
Nei due anni successivi alla sua prima performance, è il turno di ‘Rhythm 0’ e ‘Rhytm 5’. Entrambe le esibizioni mettono a rischio la sua incolumità: nella prima, l’artista per sei ore si offre al pubblico che potrà usare su di lei “strumenti di piacere o di dolore” senza limiti. Nella seconda, Marina si getta al centro di un incendio, perdendo conoscenza per la mancanza di ossigeno. Dal 1973 al 1975, l’artista ha anche insegnato all’Accademia di Belle Arti di Novi Sad.
Nel 1997 vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia con l’esecuzione ‘Balkan Baroque’ (in cui spazzola per ore ossa di bovino per eliminare sangue e altri resti). Col tempo le opere di Marina Abramović diventano sempre meno efferate, ma non meno estreme. Nel 2010 al MoMa di New York dà vita a ‘The Artist is present’, una performance durata tre mesi durante la quale l’artista, seduta immobile per ore con un grande abito ampio, sfida chiunque a sedersi di fronte a lei e a sostenere il suo sguardo. Nella città americana, dove vive, l’artista ha aperto anche un’accademia: il ‘Marina Abramović Institute’ (per accedervi bisogna attenersi ad alcune regole, tra cui digiunare per cinque giorni). Nel 2012, presenta al Pac di Milano la performance ‘The Abramovic Method’, a cui ha partecipato anche Lady Gaga.
Dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019, a Palazzo Strozzi a Firenze, c’è stata ‘The Cleaner’, la prima grande retrospettiva italiana dedicata a Marina Abramović, caratterizzata da oltre 100 opere tra dipinti, video, installazioni e performance, che hanno ripercorso le tappe salienti della sua carriera con una selezione dei suoi lavori più significativi e la riproposizione delle performance che più l’hanno resa celebre.
“Cos’è una buona opera d’arte? È qualcosa che possiede quell’energia che ti mette in sintonia con quanto sta accadendo alle tue spalle … se prendi tutto quello che fai come una questione di vita o di morte, e sei presente al cento per cento, allora le cose accadono davvero. Meno del cento per cento non è arte degna di questo nome. È così difficile, ma è l’unico modo”. Il suo modo: estremo, originale, coinvolgente; ora anche spirituale, che sembra quasi arrivare a toccare il cielo. Proprio come un’estasi.