Tanto celebre quanto schivo, Federico Barocci era universalmente noto ai suoi contemporanei come uno tra i migliori pittori di quadri di devozione, capace di rendere con una sicurezza morbida, velata di delicatezza, i temi anche più complessi della fede cattolica; talvolta innovatore di iconografie consolidate, sempre riconoscibile nelle cromie e nella fisionomia pittorica dei volti, non sorprende che proprio a lui abbia deciso di rivolgersi nel 1603 papa Clemente VIII Aldobrandini per la realizzazione della pala d’altare che avrebbe costituito il coronamento decorativo della sua cappella in Santa Maria sopra Minerva.
Le specifiche richieste da parte del prestigioso committente sono ben documentate: il pontefice aveva chiesto espressamente che la scena fosse ambientata di notte ed era stato inamovibile di fronte alle proteste del pittore, il quale però era stato infine costretto a venire incontro alle richieste del proprietario della cappella.
Federico Barocci si trovava in quel momento ad Urbino e il duca Francesco Maria II Della Rovere si era prestato a interpretare il ruolo dell’intermediario tra il celebrato pittore suo suddito ed il pressante Clemente VIII, talmente desideroso di vedere esaudita la sua precisa visione da aver inviato ad uno dei maggiori pittori della sua epoca, maestro riconosciuto e richiesto dai committenti di tutta Europa, un disegno realizzato da un giovane artista sconosciuto che avrebbe dovuto mostrare a Federico Barocci come avrebbe dovuto eseguire quel dipinto ad olio, per di più di soggetto sacro. Il duca rifletté lungamente se mostrare o meno al pittore questa non necessaria e potenzialmente offensiva traccia grafica.
La pala venne spedita a Roma da Urbino (Barocci vi aveva fatto ritorno senza mai più allontanarvisi, come tengono a notare con rimpianto alcune fonti) nel 1609 per poi essere posizionata sull’altare due anni dopo, in concomitanza con l’inaugurazione della cappella.
Al centro della scena, su di un piano rialzato, vediamo Cristo – fulcro compositivo e teologico – intento a distribuire le particole; non sta spezzando il pane come avrebbe richiesto una scena che si proponesse di risultare verosimile, di narrare la storia eucaristica per come era presumibile fosse avvenuta. Barocci qui come altrove non intende narrare, non è interessato a raccontare il giorno in cui Cristo istituì il sacramento dell’Eucaristia.
L’immagine che realizza si configura come una meditazione sul tema del sacrificio perpetuo dell’ostia consacrata, una riflessione sul dogma della transustanziazione secondo il quale Cristo sarebbe veramente presente come carne viva una volta che le ostie hanno ricevuto la consacrazione rituale: sovrapponendo elementi che fanno riferimento all’Ultima Cena – luogo temporale dell’istituzione di questo rito e preludio al sacrificio vero e proprio della Crocifissione – ad elementi che alludono invece alla celebrazione eucaristica all’interno della liturgia – come appunto le particole che Cristo sta consacrando con lo stesso gesto eseguito dai sacerdoti durante quella sezione della cerimonia – Barocci sta sovrapponendo anche i due piani, storico e teologico: sta facendo coincidere in un modo visivamente chiaro e inequivocabile il gesto di Cristo e quello dei sacerdoti, il pane dell’Ultima cena e le ostie delle celebrazioni, gli Apostoli e gli altri astanti e i fedeli che partecipavano alla mensa (termine pronunciato ancora oggi proprio nel momento della consacrazione delle ostie, poco prima della comunione) a loro contemporanea.