Giulio II alla Mirandola: il papa generale e la palla di cannone schivata

Giulio II Della Rovere è noto per essere stato un pontefice energico, assertivo e decisamente più interessato alla politica e alla guerra – del resto, non bisogna dimenticarlo, la Chiesa cattolica non era altro che una monarchia, più o meno influente in base al momento storico – che non alla religione.

Era, in realtà, molto devoto al culto della Vergine, ma basta guardare al nome pontificale col quale ha scelto di incoronarsi – foriero anche, sempre, di un’agenda personale e politica e legata al modello papale che si intende, presumibilmente, seguire – e si coglie immediatamente il suo programma: non il nome di un santo, di un martire, e nemmeno di uno dei grandi pontefici riformatori del passato, ma Giulio, simile al suo nome di battesimo – Giuliano – ma soprattutto come Giulio Cesare, il generale conquistatore, l’uomo di stato che ha tenuto Roma sul palmo della sua mano e che, per timore che quella mano, fino a quel momento distesa, si chiudesse in un pugno, era stato assassinato.

Anche le sue azioni, dunque, rispecchiano questo carattere volitivo, pragmatico, poco umile e poco paziente.

Uno degli episodi più significativi del suo pontificato – durato dieci anni, dal 1503 al 1513 – si colloca quasi al termine della sua esperienza come principe della Chiesa, ma è uno di quegli episodi che, anche dopo la sua morte, contribuiranno a consolidare l’immagine di Giulio II (immagine parziale, bisogna dirlo, ma comunque affascinante) come “papa terribile”, come l’uomo di fronte al ritratto del quale – quello ad opera di Raffaello oggi alla National Gallery di Londra – Giorgio Vasari dirà che era “tanto vivo e verace” che a guardarlo si aveva timore come se ne avrebbe avuto di fronte al papa.

Siamo nel gennaio 1511 e nonostante la neve e il clima particolarmente rigido sconsiglino di spostarsi – di per sé un’operazione complicata nel XVI secolo – Giulio II, peraltro recentemente ripresosi da un periodo di non ottima salute, ha deciso comunque di viaggiare. Un viaggio di piacere? Naturalmente no. Dalla metà di dicembre, infatti, i capitani dell’esercito pontificio stavano cercando di conquistare una roccaforte, Mirandola, facente parte del ducato di Ferrara, dominio degli ex alleati Este, e secondo quanto riportato anche dagli ambasciatori veneziani, alleati del papa, l’assedio non stava procedendo tanto efficientemente quanto avrebbe dovuto e i risultati tardavano ad arrivare.

Il pontefice, seguendo alla lettera il “veni, vidi, vici” del suo omonimo romano, con la barba lunga, imprecando, non confidando in altri che non sé stesso, rispondendo male, malissimo, a familiari, alleati, nemici e letterati, il 20 gennaio riesce finalmente – tra un colpo di artiglieria e una trattativa di pace – a trionfare sugli assediati. È un successo.

Non si può dire, però, che i suoi nemici non avessero tentato in ogni modo di respingere il suo esercito ed anche, riconoscendo in lui il cuore (ferocemente) pulsante dell’attacco, di colpire Giulio II. Era infatti noto il luogo nel quale il pontefice aveva scelto di risiedere durante l’assedio; fu così che il monastero di Santa Giustina, appena al di fuori della città assediata, ricevette la

visita di una palla di cannone che, sfortunatamente per i mandanti, colpì e ferì tre persone, ma lasciò intatto il pontefice, il quale – a metà tra la già menzionata devozione alla Vergine e l’autocelebrazione – decise di donare la palla di cannone che lo aveva quasi ucciso al Santuario della Madonna di Loreto, dove ancora oggi fa mostra di sé ricordando a tutti che Giulio II fa paura anche all’artiglieria.

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